Carissimi amici,
è veramente molto tempo che non ci sentiamo, ma non vi ho dimenticati né, spero vi siate dimenticati di noi. Direi proprio di no, se faccio riferimento alle molte lettere che riceviamo, alla vostra costanza nel sostenerci, pur in un momento così difficile per tutti.
E di questo non posso che ringraziarvi di cuore a nome soprattutto di coloro che, della vostra generosità, beneficiano: i bambini e ragazzi del Villaggio, innanzi tutto, che crescono bene e in salute, quelli del Centro di Emergenza e tutti coloro che vivono all’esterno, aiutati dal sostegno a distanza e da offerte libere.
Certo il momento è davvero difficile, occorre innanzi tutto avere uno sguardo particolarmente attento alla propria situazione personale e familiare ma, nonostante questo, il flusso di risorse continua a pervenirci in modo costante e generoso.
Per quanto concerne le nostre attività e la situazione generale in Etiopia posso fornirvi un importante aggiornamento, legato a un nuovissimo progetto del quale mi preme parlarvi in modo particolare e che speriamo di poter far partire con i primi del prossimo anno.
A Natale vi darò un ulteriore aggiornamento.
È successo mesi fa ad Addis Ababa. Eravamo in visita a un Centro con il quale collaboriamo da anni, ed entrando nel cortile, abbiamo notato una lunga fila di sedie che arrivava fin sotto le scale dell’ufficio. Per ogni sedia, di spalle, uomini, donne, ragazzi chinati in avanti, i piedi a bagno in una bacinella di plastica. Da dove eravamo non riuscivamo a vedere altro. Ci siamo avvicinati e abbiamo chiesto.
“Sono tutti malati di Podoconiosi, a vari stadi della malattia, vengono qui una volta a settimana a curarsi”
Quello che si offriva ai nostri sguardi era davvero incredibile, insostenibile.
“Molti vengono da Gojam e quasi nessuno ha una casa. Vivono di elemosina, pagano un posto letto che costa loro l’equivalente di 2/3 euro al mese. La metà di loro vive in una zona vicina al lebbrosario, che dista da qui circa 15 km. E non ce la fanno ad arrivare, nonostante le nostre insistenze, perché fanno tanta fatica a camminare, anche se per alcuni tratti possono prendere un autobus. Sono emarginati, soprattutto quelli che emanano cattivo odore, impossibilitati ad avvicinarsi agli altri, perché sempre scacciati e guardati con sospetto. Molti pensano che sia una malattia ereditaria o una maledizione. Una vita d’inferno.”
Chiediamo se è possibile parlare con qualcuno di loro, per capire, per poter aiutare e cinque di loro accettano. Questo è quanto l’interprete ci ha potuto tradurre:
“Sono Ennat Fanta. Forse ho 40 anni, sono vedova, sono venuta da Gojam cinque anni fa con un figlio. Soffro di depressione. Chiedo l’elemosina e filo il cotone. Non ho cibo sufficiente, ho fame. Abito vicino al mercato, nella zona di Kolfe, a 15 km da qui.”
“Sono Nigist, forse ho 45 anni. Sono madre di sei figli. Sono stata colpita da questa malattia dieci anni fa e mio marito mi ha abbandonata. Sei mesi fa sono venuta da sola ad Addis Ababa, con la speranza di trovare un rimedio. Al paese vendevo anice locale e patate bollite, è una “specialità” del paese. Abito molto oltre il lebbrosario, più di 16 km da qui. Vorrei tornare a casa dai miei figli.”
“Sono Molla Zegino, dovrei avere forse 47 anni. Avevo moglie e cinque figli poi, circa 15 anni fa mi sono ammalato. Sono venuto da Gojam due mesi fa. La mia malattia è strana, mi parte dall’ombelico. Dormo sulla strada, vicino alla chiesa. Non posso pagare l’affitto.”
“SonoYenieneh, forse ho 65 anni. Mi sono ammalato un anno fa. Ho sei figli. Vivo vicino alla chiesa, per strada. A Gojam filavo il cotone, qui chiedo l’elemosina. Sono venuto via dal paese per disperazione, perché pensavo di essere contagioso e tutti mi allontanavano. Vorrei curarmi e tornare a casa.”
“Sono Tegnegne, forse ho 65 anni. Sono ammalata da quando avevo forse 30 anni. Sono venuta da Gojam cinque anni fa per curarmi. Vivo in una casa vicina al lebbrosario e pago 4 euro al mese. Vorrei tornare a casa.”
Colpiti come poche altre volte, entriamo nell’ufficio e ascoltiamo le voci di chi lavora lì, e li incontra: “Cerchiamo di stimolarli e incoraggiarli, perché sono malati e devono affrontare tante, ma tante difficoltà. È una situazione fisica tanto dolorosa, colpiti da questo terribile cancro, per mancanza di igiene, per mancanza di scarpe. Aiutati, le loro gambe potrebbero migliorare pian pianino.”
Ci siamo informati sulla Podoconiosi, un nome che probabilmente risulterà sconosciuto a tutti voi, come era sconosciuto anche per noi.
La malattia è anche nota come elefantiasi del piede o piede muschioso ed è diffusa prevalentemente nell’Africa Tropicale, ma si trova anche in alcune zone dell’India e dell’America Centrale.
Può essere considerata una malattia dimenticata e quasi sconosciuta, anche se affligge circa cinque milioni di persone. L’Etiopia è il paese maggiormente colpito al mondo, con circa un milione di persone malate, ma i soggetti a rischio sono molti di più, circa 11 milioni. Una percentuale quindi rilevante della popolazione dell’intero paese.
La Podoconiosi è malattia non infettiva, che colpisce indifferentemente uomini e donne, insorge in età ancora giovane e continua a progredire nel tempo. Si manifesta in coloro, soprattutto agricoltori, che camminano usualmente a piedi nudi in zone dove il terreno, vulcanico, è composto da argilla rossa e si trova ad altitudini superiori ai mille metri.
Alcune particelle di minerali (in particolare il silicio), contenute in questi terreni, penetrano nella pelle dei piedi, provocando prima irritazione, poi, man mano che si infiltrano sempre più nella carne, il blocco della circolazione linfatica locale.
Le conseguenze sono drammatiche. Prima il piede causa prurito e bruciore, poi si gonfia e causa dolore, poi evolve con la comparsa di noduli, che divengono sempre più grossi e numerosi, fino a deformare completamente il piede, mentre spesso si instaura anche una trasformazione della pelle, che fa apparire il piede come coperto da muschio, da cui il nome di piede muschioso.
A seconda dell’evoluzione della malattia – che colpisce il piede e, in genere, anche la parte inferiore della gamba, fino al ginocchio – l’arto può divenire gonfio in modo abnorme, con ritenzione di liquido, oppure duro, con rigidità delle dita, che divengono simili a pietra, tanto che se ne può sentire il ticchettio sul pavimento. Compaiono poi delle ferite profonde e vaste ulcerazioni, sulle quali si instaurano infezioni gravi e maleodoranti.
Le persone affette da questa malattia invalidante – che è in qualche modo assimilabile alla lebbra e che impedisce o rende assai difficoltosa la deambulazione – patiscono ulteriori penose sofferenze perché, anche a causa dell’evolversi della malattia e al cattivo odore che emanano le ferite, sono emarginate dalla vita sociale: è vietato loro frequentare le scuole, sposarsi con persone non affette dalla malattia e sono di fatto escluse dalle cerimonie pubbliche e religiose. Non riescono quindi ad inserirsi in un qualsiasi tipo di attività lavorativa. Vivono un’esistenza di totale emarginazione, contraddistinta da una visione di sé, totalmente negativa e priva di ogni speranza, in situazioni di permanente disagio, difficoltà, depressione.
La prevenzione sarebbe semplicissima: basterebbe indossare scarpe con calzini, per evitare di porre i piedi a contatto diretto con il suolo. Il problema è che, nelle zone colpite, gli abitanti appartengono alle classi più povere, che trascinano un’esistenza di mera sopravvivenza e non hanno quindi il denaro per comprare le scarpe, né cognizione delle cause di insorgenza della malattia.
La cura è semplice e consistente nel lavaggio giornaliero dei piedi e delle gambe al di sotto del ginocchio con sapone e acqua addizionata di un semplice disinfettante (varechina), se sono presenti ulcere, ferite o infezioni; poi applicazione di un emolliente, come la vaselina. È inoltre necessario ricorrere a un bendaggio delle gambe e dei piedi.
Naturalmente le persone devono indossare le scarpe ma, poiché i piedi sono deformati, occorre fabbricare scarpe su misura per ciascuna persona.
La cura – lavaggio più emolliente – dovrebbe essere fatta tutti i giorni, ma le persone che sono attualmente assistite dal Centro, che non ha risorse specifiche, vivono in località distanti e hanno conseguenti difficoltà a raggiungerlo, per cui si curano solo una volta la settimana, così che i miglioramenti, quando ci sono, sono lentissimi.
Ovviamente, nei casi più gravi, l’unico rimedio resta quello chirurgico, che mira a rimuovere i noduli per consentire di indossare delle scarpe.
Con il nostro progetto, la cura verrà erogata in modo più organizzato, quindi con maggiore frequenza, estesa a un numero superiore di malati, introducendo un servizio di raccolta delle persone. Ci è sembrato un progetto molto bello, proprio per l’aiuto concreto che può essere dato a persone che sono veramente nella condizione di ultimi tra gli ultimi, emarginate, evitate e che, con semplici cure possono invece veramente ricominciare a vivere.
Ancora una volta ci viene richiesta una risposta, una risposta a quella richiesta pressante, ripetuta: “Voglio tornare a casa… Voglio tornare a casa.”
Sono certo che sarete tutti con noi.
Un saluto e un abbraccio a voi tutti e a presto.
Franco