Diario Settembre 2013

Carissimi amici,

è dal settembre dello scorso anno che non ci sentiamo ma, come altre volte vi ho scritto, non è sempre facile trovare il tempo per fare tutto e, anche quest’anno, non sono riuscito a rispettare l’impegno di inviare un paio di newsletters.

Comunque cerco ora di aggiornarvi.

Alcuni ci hanno chiesto quale effetto abbia avuto, in Etiopia, l’attuale crisi economica mondiale. In realtà è sostanzialmente sconosciuta. Per i poveri in particolare, che sono tanti, non è cambiato proprio nulla. Vivono di elemosine e il loro problema è trovare, ogni giorno, il cibo necessario per sopravvivere. I vestiti sono in genere degli stracci, che risalgono a decenni prima e uno scialle per il freddo. Il riparo per la notte è spesso occasionale ma, avvolti nello scialle o in una coperta, si dorme anche all’aperto, almeno durante la stagione secca.

La maggior parte della popolazione è costituita da dipendenti statali o di amministrazioni locali, e convive ormai da alcuni anni con un’inflazione elevata, che porta a una continua rincorsa salari/prezzi ma, tutto sommato, consente di sopravvivere come prima, anche se alcuni beni sono difficilmente reperibili perché, proprio a causa di questo continuo aumento dei prezzi, i commercianti non li vendono, attendendo un ulteriore rincaro.

Tutte queste persone, abituate da sempre a un tipo di vita privo di moltissime delle nostre comodità, sembrano non mostrare particolari segni di sofferenza perché, risolto il problema del cibo e della casa, non hanno altre esigenze primarie, per cui la vita si svolge in modo quasi sereno. Non esistono le necessità legate all’acquisto o rinnovo del vestiario, di automezzi o elettrodomestici, ecc.

In questo senso, la vita dell’Etiopia – dove una bottiglia di vetro è preziosa, un sacchetto di plastica, anche se tutto pieno di buchi, non viene mai eliminato, l’immondizia quasi non esiste perché tutto è riutilizzato e riciclato, i vestiti vengono utilizzati fino a quando non cadono a pezzi – facilita alcune riflessioni, come il considerare che la disponibilità che abbiamo di beni e servizi primari – come la luce e l’acqua corrente nelle abitazioni – é del tutto assente in Etiopia, ovvero è disponibile solo per una piccola minoranza della popolazione.

In particolare, ad esempio, la situazione legata alla distribuzione di acqua si è fatta veramente drammatica da diversi mesi. Viene erogata ogni tre giorni, per due o tre ore, durante la notte e con scarsa pressione, cosa che non consente di utilizzare il filtro per fare scorte di acqua potabile. Il motivo di tale carenza è dovuto al fatto che l’acqua proveniente dall’invaso che sovrasta Adwa, che prima serviva solo la città, peraltro in modo insufficiente, viene ora inviata anche alla cittadina di Axum. Il risultato è che la popolazione deve fare le scorte durante la notte, quando c’è una breve erogazione. Nel Villaggio riusciamo a far fronte, ma con difficoltà, utilizzando l’acqua dei due pozzi che avevamo a suo tempo scavato. Difatti un pozzo fornisce acqua non potabile, di sapore amaro, ferroso e leggermente salmastra, che utilizziamo per alcune necessità del Villaggio (pulizie, bagni, orto, ecc.). L’altro pozzo fornisce acqua bevibile, che cerchiamo di potabilizzare utilizzando il filtro centralizzato. Però la quantità è appena sufficiente, considerato che dobbiamo anche sopperire alle necessità della scuola per ciechi e che riceviamo diverse richieste di acqua, da parte di famiglie di Adwa che non riescono a far fronte alle loro necessità perché le fontane pubbliche sono prese d’assalto. Insomma una situazione veramente al limite, per la quale non sembra prevedibile alcuna soluzione o miglioramento a breve.

Quanto alle telecomunicazioni, la situazione è sempre molto difficile. Le linee cadono all’improvviso e, in alcuni giorni, è assolutamente impossibile utilizzare telefono e fax. Tanto meno internet che già è utilizzabile con estrema difficoltà e spesso non consente alcun collegamento per diversi giorni.

Ma vi sono anche notizie buone e positive e vorrei soffermarmi su queste.

In occasione della newsletter del settembre 2012, vi avevo parlato del primo decennale della nostra Fondazione e, in quella occasione, ho pensato a quanta strada abbiamo percorso insieme a voi. È proprio di questo che vorrei parlarvi, della nuova strada che stiamo costruendo insieme. Ricorderete certo la costruzione della strada per Maga’Uma, della quale vi abbiamo parlato in occasione del Natale 2012. Grazie alla generosità di moltissimi donatori, abbiamo potuto finanziare una buona parte della costruzione, anche se mancano ancora dei fondi per il suo completamento.

Ma la notizia più importante è che la strada è stata aperta!

Difatti sono state già completate le opere principali di sbancamento, per cui la strada è già in grado di assicurare un primo, anche se precario, collegamento tra tutti i villaggi. Francesco è riuscito, nel mese di giugno, a raggiungere Maga’Uma con il nostro fuoristrada, percorrendo l’intera lunghezza della strada. Tutti i villaggi sono ora collegati e la strada ha già consentito di soccorrere alcune partorienti. Naturalmente molte opere di completamento devono essere ancora eseguite: muri di sostegno, livellamento e consolidamento della sede stradale, canali di scolo, argini a difesa delle acque piovane, ecc., senza le quali, la strada, con le prime piogge, rischierebbe di essere travolta.

Nel mio prossimo viaggio in Etiopia andrò a verificare la situazione, vi comunicherò le mie impressioni e scatterò le foto che inseriremo nel nostro sito perché tutti possano vedere la realizzazione di quest’opera che segna una svolta nella vita e nella situazione di queste popolazioni, da sempre isolate.

Penso però che, intanto, possa farvi piacere leggere il racconto del primo viaggio fatto insieme a Francesco, che ci ha consentito di decidere di sostenere questo importante progetto.

Siamo partiti la mattina prima dell’alba, con la scorta di un nostro guardiano armato e insieme a due nostri collaboratori locali. La strada per Adigrat, distante circa 130 chilometri, è stata ormai tutta asfaltata, ma i tempi di percorrenza sono rimasti gli stessi di quando era una strada sterrata che seguiva e segue ancora oggi il medesimo percorso della strada costruita dagli italiani negli anni trenta. L’attraversamento di numerosi villaggi, il continuo e improvviso balzare sulla strada di bambini, persone e animali, il raggio delle curve, il superamento del passo ad oltre 3000 metri, la successiva ripida discesa verso Adigrat, rendono necessario procedere ad una velocità comunque ridotta, così che, per raggiungere la cittadina, occorrono, come prima, circa due ore e mezza.

Giunti ad Adigrat, abbiamo incontrato la persona che ci avrebbe fatto da guida, sia per la strada da percorrere (questa volta tutta sterrata), sia per raggiungere la zona e tenere i contatti con la popolazione locale. Infatti, nella zona dove viene costruita la strada, si parla un’altra lingua, del tutto diversa dal tigrino parlato ad Adwa e nella regione del Tigray.

La strada da percorrere era di circa 50 chilometri, in gran parte al confine con l’Eritrea che, in alcuni punti, era a poche centinaia di metri. La destinazione, Alitena, un paese sperduto tra i monti, nelle cui vicinanze avrebbe dovuto iniziare la strada. Il viaggio si è svolto senza alcun problema, salvo l’attraversamento di due o tre posti di blocco dove ci hanno lasciati passare, dopo aver dato una rapida occhiata ai passeggeri dell’auto: due bianchi, con tre locali, su un’auto con la scritta della nostra organizzazione, hanno evidentemente avuto la funzione di tranquillizzare i militari addetti ai controlli. Siamo giunti in vista di Alitena dopo circa un’ora e mezza di percorso su una strada estremamente polverosa e, in alcuni tratti, quasi sabbiosa, con d’intorno un paesaggio aspro, duro, secco fino all’inverosimile, perché siamo nella stagione asciutta e le ultime piogge sono state molto scarse. Piuttosto diverso da quello, sempre selvaggio, ma solcato da affascinanti canyons, della prima parte del nostro percorso. Ad Alitena sorge, in luogo isolato, un monastero costruito nella metà del 1800 da un missionario italiano. Intorno ad esso si è creato, nel tempo, un piccolo villaggio, che vive in simbiosi con il monastero. La sensazione, quando il monastero ti appare all’improvviso dopo una curva e, dietro ad esso, scopri il piccolo villaggio, è di aver chiuso un attimo le palpebre per riaprirle in un altro luogo, lontano, silenzioso e affascinante, come un presepio.

All’improvviso, sbucato quasi dal nulla ci appare, salutandoci in italiano – ci spiegherà poi che ha studiato alcuni anni in Italia – un prete che vive nel monastero e che ci attendeva per farci da guida e da interprete. Ci racconta brevemente la storia del monastero poi sale sul nostro fuoristrada e ci dice di proseguire. Gli chiediamo dove, considerato che la parvenza di strada termina dopo poche decine di metri. Insiste. Nel frattempo, davanti a noi, sempre sbucati dal nulla, due o tre ragazzi spostano dei rami secchi che delimitano un piccolo campo coltivato nel quale veniamo invitati ad inoltrarci. Dall’altra parte del campo, qualcuno sposta altri rami per farci passare. Qui scopriamo una traccia: il fianco della montagna è stato scavato per ricavare uno spazio orizzontale che funge da strada. Inseriamo le ridotte e proseguiamo lentamente. La traccia si inerpica ripida e con curve strettissime che ci obbligano, in un paio di occasioni, a fare una manovra per poter proseguire. Alla nostra sinistra il fianco della montagna, alla nostra destra il burrone che precipita per due o trecento metri. “Stiamo il più possibile verso la montagna”, ci diciamo con Francesco. All’improvviso ci troviamo dinanzi una donna che cammina nella direzione opposta alla nostra, insieme ad un asino che si piazza in mezzo alla strada e non ne vuole sapere di spostarsi, malgrado gli sforzi della donna. Devono scendere due dei nostri accompagnatori che, messo uno straccio sugli occhi dell’asino, riescono a spingerlo da una parte, quel tanto che basta per farci passare.

Proseguiamo per alcuni minuti, seguendo la traccia scavata nella montagna che, all’improvviso, precipita verso il fondo di una piccola valle, dove scorre un rigagnolo di acqua e dove si scorge qualche sprazzo di verde. Il vecchio prete, eccitatissimo, ci dice di suonare il clacson e, poiché non comprendiamo la sua richiesta, lo ripete quasi urlando “suona, suona, suoonaaa” cercando di sporgersi verso il posto di guida, per suonare lui stesso. È la prima volta che un’auto passa su questa strada, ci spiega, e il suono é di buon augurio. Al termine della ripida discesa, dove la traccia finisce, un piccolo corso d’acqua ci costringe a fermare l’auto. Il vecchio prete ci spiega che quella che abbiamo appena percorso è una prima traccia della strada che dovrà proseguire per una decina di chilometri, passato il corso d’acqua, laggiù dietro quei monti, collegando quattordici piccoli distretti, per raggiungere infine, Maga’uma. Mentre lo ascoltiamo, ci giunge, ritmato da decine di voci, un canto. Mi guardo intorno, non c’è nulla e non vedo nessuno ma il canto prosegue facendosi ora più forte, ora più lontano. Finalmente scorgo, sul fianco della montagna davanti a noi, una fila di persone che stanno scendendo velocemente, al suono ritmato del canto. Sono alcuni degli abitanti del primo distretto, quelli che hanno già scavato la prima traccia di strada, che vengono a salutarci e ad accoglierci, armati di pale e picconi. Cantando, ci girano intorno per tre volte in segno di benvenuto. Poi si dirigono verso il piccolo corso d’acqua per lavarsi, dissetarsi e attingere acqua per le loro case. Il prete ci spiega che, nella stagione delle piogge, quello che oggi è nemmeno un ruscello con pochi centimetri di acqua, si trasforma, all’improvviso, in torrente impetuoso con una valanga di acqua che travolge tutto, e divide irrimediabilmente il territorio. Ci racconta di chi è stato travolto dalle acque, di famiglie e bestiame rimasti separati per giorni dal torrente, parte su un lato a parte dall’altro, senza avere la minima possibilità di attraversarlo. Bisogna costruire un ponte, ponendo molti gabbioni pieni di pietre da un lato e dall’altro, facendo passare la strada sopra le acque, abbastanza in alto perché non venga spazzata via. Abbiamo visto abbastanza e vorremmo rientrare, la via del ritorno è piuttosto lunga e sarebbe bene rientrare ad Adwa prima che faccia notte. Meglio non viaggiare di notte in zone così isolate. Ma non ci sono ragioni. Dobbiamo trattenerci per il pranzo, rifiutare sarebbe una gravissima offesa. Solo che, per giungere alla casa dove stanno preparando, che appare proprio sul crinale della montagna davanti a noi, qualche centinaia di metri più in alto, dobbiamo inerpicarci su uno stretto e ripidissimo sentiero. Saliamo e, malgrado il sole che si accanisce sulle nostre teste e la pendenza del sentiero, non riusciamo a sudare per la secchezza dell’aria.

La casa è una piacevolissima sorpresa, l’aia interna è pulitissima, malgrado vi passeggino delle galline. Così lo spazio destinato alla cucina, con il tipico mogogo e così tutte le persone che vivono all’interno. A lato della casa è costruita una cisterna per recuperare l’acqua piovana, anche incanalandola da un tetto in lamiera. La cisterna, larga circa tre metri e profonda almeno due, è completamente asciutta e il segno dell’acqua che è riuscita ad accumulare con le ultime piogge è solo a circa 20 centimetri dal fondo.

L’altra sorpresa è che, in questa regione, gli uomini lavorano anche per la cucina –stanno infatti tagliando in minuscoli pezzetti la capra che hanno appena ucciso per il pranzo – mentre le donne si dedicano alla preparazione del caffè.

La situazione è abbastanza surreale, ognuno parla una lingua diversa e, per comunicare, abbiamo tutti bisogno di rivolgerci a qualcuno che possa fare da interprete. I nostri accompagnatori sono letteralmente esterrefatti: non capiscono una parola di quello che le persone dicono e non riescono a credere di essere in Etiopia. Loro parlano il tigrino, uno di loro anche un buon inglese, ma trovare, a circa duecento chilometri da casa, la loro stessa gente che parla una lingua incomprensibile è un fatto che non riescono a comprendere e che li lascia stupiti, increduli e quasi timorosi. È un evento al quale non erano preparati, che li fa sentire estranei nella loro terra. Restano quasi muti per tutto il tempo del pranzo, scambiandosi solo qualche breve frase tra di loro e guardandoci di tanto in tanto, continuando a ripetere che non capiscono nulla di quello che viene detto.

Per loro è una scoperta della quale racconteranno per mesi, agli amici e familiari.

Un caro saluto a tutti e … a presto.

Associazione
James non morirà
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