]Cari amici,
è da molto tempo che non ci sentiamo, ma non mi è stato realmente possibile trovare il tempo per scrivere e raccontarvi qualcosa del nostro e vostro “Villaggio”.
Contavo di aggiornarvi al mio rientro dall’Etiopia ma, considerato che all’epoca saremo molto vicini al Natale e voi mancate da tempo di notizie, mi sono imposto di scrivervi subito.
Non vi anticipo alcuno dei dati della nostra attività, che sono davvero splendidi, perchè li riceverete a Natale, insieme alle foto dei bambini in adozione, per chi ne ha.
Ne approfitto per preannunciarvi che quest’anno, per ridurre ancora i costi, invieremo tramite internet tutte le comunicazioni natalizie e le foto. A coloro dei quali non abbiamo l’indirizzo internet, dovremo necessariamente avvalerci della posta, con le conseguenze che questo comporta, non solo di costi, anche perchè, di tanto in tanto, veniamo a sapere che le nostre lettere non sono mai giunte a destinazione.
Ma torniamo all’argomento della mia lettera. Questa volta vi racconto tre storie.
Rompina
Di Abdulah, vi avevo parlato in passato, quando vi avevo raccontato che l’avevamo trovata all’ospedale di Adwa, dove era stata abbandonata e dove viveva da sei mesi, sempre sdraiata su un lettino pediatrico, troppo piccolo per lei, che aveva già 11 anni. In tutto quel periodo era stata nutrita solamente con pane e thè a causa di una presunta tubercolosi addominale.
L’avevamo presa con noi e trasferita al Centro di Emergenza. La sua situazione, inizialmente, era tragica e disperata. Aveva un addome enorme, era gravemente denutrita e completamente deproteinizzata. Tra l’altro non si riusciva a capire che tipo di malattia avesse veramente. In relazione alla diagnosi di probabile tubercolosi addominale, le erano stati dati, dai medici dell’ospedale, per sei mesi, degli antibiotici che, come effetto collaterale, le avevano leso irrimediabilmente il nervo acustico, per cui era diventata completamente sorda. Le avevamo fornito un apparecchio acustico che ci era stato donato, con il quale sembrava riuscisse a sentire qualcosa. Ma lei lo rifiutava perchè, probabilmente, riusciva solo a sentire dei rumori disturbanti.
Era rimasta con noi e, piano piano, era decisamente migliorata, grazie anche ad un’attenta alimentazione e, sopratutto, all’ambiente familiare ed affettuoso che aveva intorno. La sordità le impediva anche di andare a scuola, così si univa ai bambini più piccoli dei quali, all’interno del Villaggio, si occupa una giovane locale, facendoli giocare, insegnando qualche canzoncina, qualche parola di inglese, le lettere dell’alfabeto, in una sorta di asilo o di pre-scuola. Abdulah era andata a scuola e sapeva leggere e scrivere, però le piaceva stare in quell’ambiente, dove aiutava la giovane maestra a prendersi cura dei più piccoli, che lei prendeva in braccio e cullava teneramente.
Era orfana di madre, morta durante il suo ricovero in ospedale. Il padre, che si era risposato, era venuto a trovarla un paio di volte, ma lei non voleva vederlo. Temeva che volesse portarla via e poi non riusciva a perdonarlo di averla abbandonata in ospedale “come un cane” (sono le sue testuali parole). Così aveva fatto del Villaggio la sua casa e di Francesco e Nevia la sua famiglia.
A causa della sordità, non si rendeva conto del volume della sua voce, per cui parlava sempre con un tono altissimo ed assordante. Inoltre il timbro di voce era del tutto particolare: un po nasale, un po gracchiante, un po stentoreo. Francesco lo ha definito “stonato”.
Era una presenza costante nel Villaggio e te la ritrovavi sempre intorno, quando non stava con i bambini dell’asilo. Aspettava Francesco e Nevia quando rientravano da qualche giro e correva loro incontro abbracciandoli, raccontando, con voce altissima quello che era accaduto. E dovevi starla a sentire, con i suoi racconti un po sconclusionati, a volte ridicoli, fatti spesso di litigi con le altre donne del Villaggio, o con altre bambine più grandi. Non aveva mai capito come si chiamasse Francesco e leggendo i movimenti labiali, aveva capito, chissà come, che il suo nome fosse Biagio.
Così in continuazione sentivi urlare Biagio, Biagio, in giro per il Villaggio.
Per questa sua onnipresenza, spesso invadente, per questo suo modo di parlare “urlato” e per il suo carattere bambinescamente assai litigioso, l’avevamo chiamata, scherzosamente ed affettuosamente, “Rompina” e tutti, nel Villaggio, hanno cominciato a chiamarla così, utilizzando questo nome, del quale avevano però voluto sapere il significato. “Rompina” era piaciuto a tutti.
Ed era piaciuto anche a lei che ci aveva detto “Basta, da oggi il mio nome non è più Abdulah, ma Rompina”
Ormai era per noi una presenza irrinunciabile. Rumorosa, litigiosa ma tanto bisognosa di affetto.
Ti correva incontro con quel suo modo sgangherato, urlando spesso parole non comprensibili e ti faceva dei discorsi ai quali faticavi a dare risposta, perchè non riusciva a capire bene quello che le veniva detto, neppure se a parlare erano persone locali
Era felice di vivere nel Villaggio, diventato ormai la sua casa.
Lei era la mascotte del Villaggio, la prima che Francesco e Nevia vedevano al mattino, l’ultima che salutavano la sera. E, come ha scritto Francesco, “… pensavamo che la sua fosse una storia a lieto fine, di quelle che vediamo nei film in televisione …”
E invece …
Ai primi di giugno ha cominciato a non stare bene. Il suo umore era peggiorato notevolmente e diceva di sentirsi male, senza riuscire, tuttavia, a spiegare il suo malessere. Ci siamo resi subito conto che si trattava di qualcosa di grave. L’addome si era di nuovo ingrossato rapidamente, mangiava di meno, era debole e stava sempre seduta su una sedia, lei che era sempre in piedi ed in giro per il Villaggio. Non c’era molto da fare. Le cure che presumibilmente le occorrevano le stava seguendo. Evidente la sua grave malattia era giunta allo stadio terminale.
Così, nel giro di due o tre settimane, si è completamente trasformata. Debole e smunta, non voleva più alzarsi. Passava le giornate stando quasi sempre a letto, parlando sempre meno, quasi sempre ad occhi chiusi per la debolezza. L’ultima settimana è stata devastante. Ha cominciato a vomitare sangue. A quel punto il medico ci ha evidenziato che era opportuno trasferirla nel locale ospedale, trattandosi di una bambina che, comunque, aveva pur sempre un padre, per cui non potevamo prenderci la responsabilità di trattenerla da noi. Francesco e Nevia erano perfettamente coscienti che questo non sarebbe servito a nulla, ma non potevano fare diversamente.
Francesco mi scrive “Mi sono seduto vicino a lei e le tenevo la manina tra le mie. Non sapevo se fosse cosciente del fatto che fossimo lì vicino a lei, che non l’avevamo lasciata sola. Ad un certo punto aveva mosso un braccio per togliersi qualcosa che le dava fastidio dalla faccia. Era una formica che le camminava sul viso. Nevia mi ha detto “sente una formica che le cammina sulla faccia e vuoi che non senta che le tieni la mano?”
…
Ieri sera ha vomitato l’ultimo sangue che aveva nello stomaco, si è contratta e se ne è andata.”
Che cosa era più amabile in lei? Cosa ci manca di più?
La sua voce “stonata” ed urlante? Il suo camminare scoordinato da “ubriaca”? La sua sordità? Le sue proteste e la sua insistenza? I suoi capricci di bambina? Tutto questo ma anche il suo sorriso che si illuminava, mettendo in mostra i suoi dentoni bianchi, ogni volta che ti vedeva e ti correva incontro, venendo ad abbracciarsi stretta, stretta, a prendersi le carezze.
Ci manca tutto ciò che lei era. Quella piccola “anima”, chiusa in un corpicino sgangherato e malato, che un giorno Luciana aveva visto, per caso, abbandonata in un lettino troppo piccolo per lei.
Così è arrivata da noi per passare quello che ancora le restava della sua breve vita.
“Aiutare a morire” è un concetto che è forse al di fuori della nostra mentalità occidentale. Non è piacevole, non è gratificante. Ma a volte è quello che ci viene chiesto di fare.
La sola cosa che ti è permesso di fare.
La sola cosa che abbia senso, in un apparente non senso.
E’ rimasta nel cuore di tutti ed anche lei, come James, contribuirà a darci la forza di continuare a combattere, ancora con più determinazione, perchè ci siamo ripromessi che James non morirà e, con lui, anche Rompina.
Helen
E’ arrivata al Centro di Emergenza, portata dalla polizia, perchè la madre, che è pazza, aveva detto che se non gliela avessero tolta l’avrebbe uccisa. Così, una mattina è arrivata al Villaggio. Aveva forse tre mesi ed il suo stato di denutrizione era notevolissimo. E’ stato subito chiaro che, per lei, occorreva un’assistenza speciale, che anche le donne locali, che pure si dedicano con cura ed amore ai bimbi del Centro di Emergenza, non avrebbero potuto avere. Bisognava nutrirla con attenzione, poco per volta e di frequente perchè, in tali situazioni, bisogna fare molta attenzione a non sovraccaricare il bambino. Altrimenti si provoca vomito e diarrea e la situazione peggiora rapidamente. Così Francesco e Nevia hanno deciso che dovevano occuparsene personalmente e direttamente. E l’hanno tenuta in casa con loro. Purtroppo il tempo da dedicare ad Helen era notevole, e questo limitava, a turno, la loro concreta presenza nel Villaggio e nel Centro di Emergenza, creando notevoli problemi.
Per fortuna era previsto che, proprio in quei giorni, arrivasse una coppia di giovanissimi volontari, poco più che ventenni: Roberto e Paola. Così, appena arrivati, si sono visti “affidare” la piccola Helen e si sono dovuti prendere cura di lei per tutto il giorno. Lo hanno fatto con gioia e con grandissima dedizione, anche se all’inizio, con qualche timore, visto che era ovviamente la prima esperienza del genere e considerata la “mole” di Helen, che pesava poco più di due chili. Il che rendeva non facile “maneggiarla”. Roberto mi ha raccontato di essere rimasto impressionato da queste micro dimensioni che la facevano stare nel palmo della mano di Francesco. Non aveva certamente mai visto qualcosa del genere. Roberto e Paola sono stati però dei “genitori adottivi” eccezionali e, grazie alle loro cure ed attenzioni Helen, nel giro di un paio di settimane, è decisamente migliorata ed ha potuto cominciare a mangiare con pasti più sostanziosi e regolari. Poi Roberto e Paola sono dovuti rientrare, perchè iniziava l’anno universitario. Ma la loro presenza, in quel momento, è stata veramente preziosa ed essenziale, non solo per il modo magnifico nel quale sono riusciti a prendersi cura di Helen, ma anche perchè la loro presenza ha lasciato liberi Francesco e Nevia che, altrimenti, sarebbero stati notevolmente condizionati da questa nuova presenza che assorbiva tempo ed energie, distogliendole dalle funzioni ordinarie e limitando tutte le altre attività.
Helen ci è stata affidata legalmente e, pertanto, è divenuta una nuova ospite del nostro Villaggio. Francesco e Nevia la tengono ancora con loro, pur potendo ora contare sull’aiuto delle donne che seguono il centro di Emergenza ma, non appena le sue condizioni lo consentiranno, verrà affidata ad una delle mamme che, a quel punto, potrà validamente prendersi stabilmente cura di lei.
Al rientro in Italia, Paola ci ha comunicato che ha deciso di adottare a distanza Helen.
Certamente, questa giovanissima volontaria, non pensava, partendo, che avrebbe avuto una esperienza del genere e che, al rientro, si sarebbe trovata, nel giro di due settimane, ad essere diventata “madre adottiva” di una piccola etiopica.
Proprio nei giorni scorsi Francesco ci ha inviato una foto di Helen, che tiene in braccio.
Roberto e Paola, quando l’hanno vista, hanno sgranato gli occhi, meravigliandosi del suo ulteriore miglioramento, avvenuto nelle due o tre settimane successive alla loro partenza. Ora Helen pesa più di tre chili e, anche se sempre piccolina in rapporto all’età (nella foto è appoggiata a Francesco e sembra un piccolo geko od una piccola ranocchietta che si tiene aggrappata a lui).
Il peso ha raggiunto e superato i tre chili ed è comunque avviata ad un completo ristabilimento.
Teresa
“Papà mi richiami.”
Le tre parole pronunciate da Francesco al telefono mi avevano fatto capire che c’era qualche cosa di grave.
“Cosa è successo?”.
“Sono quattro anni che vivo quì e pensavo di avere visto tutto. Ma questa è una cosa che grida pietà”.
“Raccontami”.
“Ieri mattina si è presentato da noi un uomo di un villaggio, accompagnato da un paio di parenti, dicendo che sua moglie era morta di parto dodici giorni prima, nel mettere al mondo l’ultima figlia.
Ha fatto morire la madre – mi ha detto – ed io non so come fare con tutti i figli. Ho deciso di lasciarla morire. Però questi miei parenti mi hanno parlato del tuo Villaggio e mi hanno convinto a venire qui. Se vuoi, prendila tu, altrimenti la lascio morire.
Poichè l’affermazione mi sembrava strana, ho cercato di capire, con una serie di domande, se mi stava raccontando il vero, o se era solo una storia inventata per cercare di lasciare da noi la bambina, che costituiva per lui solo una nuova bocca da sfamare.
Mi sono reso conto che la storia era vera, anche se incredibile.
Gli ho detto che avrei accettato la bambina e gli ho chiesto di portarmela.
Ha detto che sarebbe tornato al suo villaggio, l’avrebbe presa e l’avrebbe riportata la sera stessa.
Si stava allontanando quanto ho “sentito” che qualcosa non mi convinceva.
Doveva ritornare a piedi al suo villaggio, distante diversi chilometri, poi tornare a portare la bambina , quindi di nuovo al villaggio. Per la sera non ce l’avrebbe fatta. Poi era troppo determinato ed infuriato con la bambina. Era venuto da noi solo perchè i parenti avevano insistito. Perchè avrebbe dovuto fare tutta quella fatica, avanti e indietro, a piedi?
Chi mi garantiva che l’avrebbe riportata? E se veramente voleva lasciarla morire, quali erano le condizioni di salute della piccola? Magari non sarebbe arrivata al giorno dopo.
Troppe cose non mi convincevano. Così, prima che si allontanasse, ho deciso di andare con lui, per prendere direttamente la bambina. Ho portato con me una infermiera ed una donna del nostro Villaggio e siamo saliti in macchina. Dopo alcuni chilometri di strada sterrata, ci siamo inoltrati in un sentiero dell’altipiano. Ad un certo punto abbiamo comunque dovuto lasciare la macchina e proseguire a piedi.
Quando siamo arrivati alla sua capanna, mi ha indicato un mucchio di stracci sporchi.
Ho frugato lì in mezzo, mentre una nuvola di mosche si è levata in volo, ed ho visto ciò che non avrei mai pensato di vedere.
La bambina sembrava morta. Da quando era nata, dodici giorni prima, nessuno l’aveva pulita, per cui era interamente ricoperta di escrementi incrostati su tutto il corpicino che, nei pochi punti visibili, era quasi incartapecorito per la disidratazione. Non era una bambina sporca, erano degli escrementi dai quali fuoriuscivano parti del corpo di una neonata. Non si capiva neppure se fosse maschio o femmina.
Ma era ancora viva? Non si aveva l’evidenza di un respiro, seppure lieve, impossibile sentire se il cuore batteva. Però, toccando qualche punto del volto, sembrava ancora calda.
L’ho presa immediatamente. Anche se era già morta o stava morendo, non si poteva lasciarla in quello stato.
Abbiamo fatto di corsa la strada fino alla macchina poi, finalmente, siamo arrivati al Villaggio.
Non si sapeva da dove cominciare. Gli escrementi erano così incrostati che si faceva fatica a toglierli. Ma, man mano che ci riuscivamo, è cominciato il vero orrore.
Sotto quella crosta non c’era più un corpo, ma solo piaghe da decubito che mettevano in mostra le piccole ossa. Sopratutto la parte inferiore del corpicino, era una massa informe e sanguinante. Una cosa del genere era, per me, al di fuori di ogni immaginazione.
La pulizia doveva essere così dolorosa che la bambina ha dato i primi segni di vita, con dei flebilissimi miagolii, ma poi è ripiombata nel suo stato semi comatoso.
Siamo riusciti finalmente a pulirla e lavarla. Poi abbiamo disinfettato con cura tutte le piaghe, ne aveva anche sulle manine e sulla faccina, e le abbiamo spalmato la crema antibiotica, avvolgendola in garze.
Prima di tutto dovevamo pensare al suo stato di disidratazione estrema. Ci siamo messi, a turno, a darle con il contagocce alcune gocce di soluzione reidratante. Ma l’impresa era improba perchè la piccola non aveva neppure la forza per deglutire. Dopo due o tre ore, ci siamo resi conto che eravamo riusciti a farle prendere solo pochissimi c.c. di liquidi, assolutamente insufficienti.
Abbiamo dovuto quindi applicarle una flebo, con tutte le difficoltà del caso, legate alla situazione della bambina e della sua pelle, irritata e piagata anche sulla testina, dove vengono applicate le flebo ai neonati. Ci siamo riusciti, ma non è stato assolutamente facile. Questo ci ha comunque consentito di superare il problema immediato della reidratazione. Non ce la siamo sentita di affidarla alle cure dell’infermiera, così abbiamo deciso di tenerla a casa con noi, per seguirla direttamente. Durante la notte, nella quale l’abbiamo seguita a vista, dandoci i turni, abbiamo completato la reidratazione ed abbiamo potuto, finalmente, cominciare a darle un poco di latte, attraverso un sondino gastrico. Le dosi erano ovviamente piccolissime, pochi c.c. ogni volta, perchè l’organismo si doveva riabituare gradualmente. Certo è una situazione gravissima ed al limite. Non abbiamo medicazioni specifiche per le piaghe da decubito. Dobbiamo arrangiarci con quello che abbiamo a disposizione.”
Ho richiamato Francesco un paio di giorni dopo.
“Teresa ha avuto un’intera giornata di vomito e diarrea, di reidratazione con flebo ed alimentazione con il sondino. A questo si deve aggiungere che, ogni volta, occorreva cambiarla immediatamente, perchè altrimenti le piaghe correvano ulteriormente rischio di infettarsi, oltre a procurarle un dolore terribile che, fortunatamente, doveva sentire in modo alquanto attutito, stanti le condizioni generali.
Non si riusciva a seguirla neppure in due, tra cambiarla, reidratarla, darle da mangiare, pulirla di nuovo, medicarla e questo senza soluzione di continuità, giorno e notte. Siamo arrivati a cambiarla venti volte in una sola giornata. Un diluvio di problemi e di urgenze che sembrava non avere mai fine. Ora è un poco migliorata, il vomito e la diarrea sono diminuiti, anche se non sono cessati, ma le consentono di trattenere qualcosa e non sono così inarrestabili e continui come in precedenza. Le abbiamo tolto la flebo, perchè riusciamo a darle liquidi e latte per bocca. Le abbiamo tolto anche il sondino gastrico, che le aveva irritato la gola. Sembra quindi una prima stabilizzazione. Le piaghe non si sono infettate, ma continuiamo a cambiarla ogni volta che si sporca. Almeno una decina di volte al giorno.”
L’ottavo giorno, da quando Teresa è arrivata da noi (Nevia ha deciso di chiamarla così e non ho avuto bisogno di chiederle il perchè) ho chiesto notizie di lei a Francesco.
“Non ci crederai, ma le piaghe da decubito sono tutte chiuse. Restano ancora notevoli arrossamenti e la pelle è delicatissima ma le piaghe si sono chiuse e non c’è stata alcuna infezione. Non riesco a credere in un cambiamento così radicale. Ha cominciato a mangiare abbastanza regolarmente. Ora segue anche un ritmo di sonno e veglia. Comincia a reagire agli stimoli esterni. Lo sai che è pure aumentata di peso? E’ incredibile, con quello che ha passato. In queste ultime due o tre notti, visto che era così migliorata, abbiamo chiesto ad un’infermiera di assisterla, per poterci riposare. La teniamo ancora in casa con noi, perchè “mamma Nevia” non vuole separarsene, ma penso che ormai possiamo tenerla nella nursery.
Credo che lo faremo domani.
Certo che quando è arrivata non avevamo molte speranze che se la cavasse, ma pensavamo solo che avremmo almeno potuto consentirle di morire pulita ed accudita, non in mezzo ai propri escrementi.
E invece …”
E invece, se tutto continua così, tra qualche tempo Teresa potrà essere affidata ad una mamma del Villaggio, farà parte di una famiglia, avrà fratellini e sorelline e diventerà una nuova ospite del nostro “Villaggio dei Bambini”.
Poi, anche per lei, qualcuno ci chiederà di sostenere uno dei piccoli orfani del nostro Villaggio.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]