Maggio 2006

Cari amici,

sono di nuovo a voi, dopo essere rientrato dall’Etiopia, dove ho trascorso, insieme a mia moglie, la Pasqua, in compagnia di Francesco e Nevia e con la presenza di una famiglia di amici italiani che hanno assai generosamente contribuito alla costruzione del Villaggio e, ora, al suo funzionamento.

Ogni viaggio è una esperienza nuova e diversa da quelle precedenti. Questa volta ci siamo trovati con la Pasqua che veniva celebrata una settimana dopo quella nostra, seguendo il calendario ortodosso, pur trattandosi di Pasqua cattolica. L’Etiopia è uno dei pochissimi paesi al mondo che segue un calendario liturgico diverso da quello di tutti gli altri paesi del mondo.

Tale situazione comporta un certo disorientamento. Ti chiedi se stai viaggiando nel tempo e non riesci bene a capire in quale momento sei. Arrivi, che per te sarebbe Pasqua, mentre si sta celebrando la domenica delle Palme. E’ un vivere un “già vissuto” che lascia un poco perplessi.

L’arrivo al Villaggio, come sempre, ma ogni volta di più per il maggior numero di persone che trovi, è sempre festoso. Tutti ti aspettano per festeggiarti gioiosamente, con canti, saluti delle mani e grandi sorrisi. I bambini sono i più eccitati e non vedono l’ora che la breve cerimonia di saluto termini, per poterti correre incontro gridando, come solo loro sanno fare, cercando di essere i primi ad abbracciarti e stringertisi addosso, spiaccicandoti sulle guance quei loro baci, che lasciano il segno. Sono degli “smac” alla Paperino, accompagnati anche, materialmente, dal medesimo verso!

E mentre uno ti sta attaccato al collo e ti bacia, gli altri ti tirano e ti stringono le mani, perchè tu ti dedichi a loro. E bisogna calmarli, per evitare che litighino o che travolgano, come uno sciame festoso e rumoroso, dal quale provengono gridolini di gioia, qualcuno dei più piccoli che, reggendosi a stento sulle gambe, arriva, tutto traballante, a vedere cosa succede.

Poi gli adulti: le mamme, i lavoranti, i guardiani. Alcuni hanno atteso anche dopo la fine del loro turno di lavoro per poterci salutare.

Ed è uno strano scambio, fatto di poche parole (le mie conoscenze di tigrino sono risibili) e di grandi abbracci, quelli veri, che durano e che tengono i due corpi uniti, non staccati e distanti, come quasi sempre avviene da noi. Con i quattro baci che devono essere scambiati (invece dei nostri due) con le donne ed i bambini. Con la spalla destra contro spalla destra, tenuta premuta, mentre ti dai una forte stretta di mano, tra gli uomini.

Però, dopo un certo tempo, dobbiamo fermarli e chiedere di andare a casa a bere qualcosa e farci una doccia. Siamo in viaggio dalla sera precedente. Abbiamo avuto alcune ore di attesa ad Addis Ababa, per la coincidenza interna, poi il volo ci ha portati ad Axum dopo le 14. Così siamo arrivati al Villaggio dopo le 15. I saluti ed i festeggiamenti hanno richiesto altro tempo, ma sono finiti. C’è la cerimonia del caffè, irrinunciabile.

Così, dopo una rapida ma benefica doccia, subito pronti per il caffé, con una cerimonia che, quando è breve, dura almeno un’ora.

Si comincia con i chicchi di granturco, che vengono messi un pentolino e tostati, con il loro allegro scoppiettio, per trasformarli nei “pop corn”, anche a noi ben conosciuti.

La tostatura viene fatta utilizzando l’immancabile “fornello”, (si chiama così anche in tigrino!) alimentato con il carbone.

Poi si prendono i chicchi di caffè che vengono tostati in un pentolino, fatto quindi girare tra i festeggiati, perchè possano annusarne l’aroma chi si sprigiona dal fumo della tostatura. Mi sembra di essere ritornato all’infanzia, quando nei paesi di montagna le donne tostavano il caffè, che poi trasformavano in polvere con il mitico macinino. Anche quella era una “cerimonia” sociale, che serviva per stare insieme, parlare, vivere la vita comune.

Dopo la tostatura si passa alla frantumazione dei chicchi, fatta in un mortaio, utilizzando un pestello costituito da un pezzo di ferro o di legno duro. Poi, in un bricco di terracotta, con la pancia larga ed un lungo collo stretto, rigorosamente artigianale, viene messa l’acqua e, pian piano, la polvere di caffè. E’ tutto un delicato equilibrio tra il mettere e togliere il bricco dal fornello, per far scaldare l’acqua ed evitare che, bollendo, trabocchi. Ma finalmente l’acqua è arrivata alla bollitura ed il caffè dà uno sbuffo fuori dal collo del bricco. Il primo “giro” di caffè può avere inizio!

Si pone sullo stretto collo del bricco un filtro naturale, fatto di fili di canapa o di peli di coda di asino, per evitare che la polvere di caffè cada nelle tazzine, e si serve. Il sapore è eccezionale e, per chi non è abituato, si tratta di un “caffè caffé”, fortissimo ma buonissimo.

Il primo giro è riservato agli ospiti. Poi si lavano le tazzine in un catino, si fa bollire ancora l’acqua con i fondi di caffè e si parte per il secondo giro. Infine il terzo.

Il tutto mentre si chiacchiera, si ride, si mangiano i pop corn ed i ceci tostati, i bambini ti tirano da tutte le parti, fanno a gara per starti in braccio, ti accarezzano, ti guardano, ti sorridono, ti chiedono di giocare con loro, incuranti della cerimonia del caffè.

Sta scendendo la sera. Tutti siamo molto stanchi. Così, cominciamo a salutare, per rientrare a casa. Ma anche i saluti non sono brevi. Alla fine bisogna che le mamme e Francesco “impongano” ai bambini di rientrare. Fosse per loro resterebbero tutta la notte: sono inesauribili!

La mattina seguente inizio la mia visita al Villaggio, per conoscere tutte le nuove persone e vedere tutte le novità.

Eccovene un paio.

Abeba, la prima mamma arrivata al Villaggio circa un anno fà, e Turu, ospitate nel “Centro di Emergenza”, non avevano più motivo di restare. I bambini stavano benissimo e si doveva fare posto ad altri. Però si poneva un problema. Nessuna delle due aveva parenti presso i quali andare, non un lavoro, non una casa. La loro prima casa era stata il Villaggio. Dove sarebbero andate? Come avrebbero fatto a vivere? Su cosa potevano contare?

Alla domanda su cosa possedevano, la risposta di Abeba, dopo averci pensato, è stata “ho un piatto, una teiera e una latta di plastica”. E’ tutto? Non hai altro? “No, è tutto”. “Io ho anche una tazzina da caffè con il piattino ed il cucchiaino”, ha aggiunto Turu, molto fiera di questa ulteriore “proprietà”. “Mi ero dimenticata il cucchiaio”, ha soggiunto Abeba, anche lei con un sorriso di compiacimento. Ah beh! Con queste precisazioni è tutta un’altra situazione, si sono detti Francesco e Nevia guardandosi tra il divertito ed il disperato.

Meno di vent’anni, un figlio cui pensare e provvedere, nessun legame familiare, nessun lavoro, nessuna casa, nessuna prospettiva futura. Un piatto, una latta di plastica, un cucchiaio, una tazzina da caffé, queste le loro proprietà!

Però guardavano Francesco e Nevia con tanta serenità e con un sorriso. Si consideravano sotto la loro protezione. Questo bastava, le rendeva sicure e tranquille: loro avrebbero trovato la soluzione. Di loro si fidavano totalmente.

E’ di fronte a questi casi, così apparentemente semplici e disarmanti, di fronte a questa povertà così assoluta ma non esibita – che devi scoprire e riconoscere – che senti tutta la tua responsabilità.

Di fronte a quei sorrisi di serenità e totale fiducia, in una situazione che, per un occidentale sarebbe incomprensibile ed inaccettabile, sopratutto psicologicamente. In una situazione che, comunque, non si verifica in occidente, perchè anche il più povero trova comunque degli appoggi, degli aiuti e non ha una povertà così radicale.

E’ in questi casi che ti interroghi, che senti il tuo animo smarrito, perchè sei chiamato ad essere “responsabile” di queste creature, ultime tra gli ultimi, che si fidano di te, che pongono nelle tue mani la loro vita, perchè hanno verificato e “sentono” che ti prendi cura di loro.

E ti si “af-fidano”.

E ti chiedi come aiutarle, cosa fare. Quale sia la cosa giusta.

Si è così deciso di trovare loro una casa dove potessero alloggiare e sono state acquistate alcune suppellettili indispensabili: il letto, il fornello, qualche stoviglia, alcune pentole e tegami.

Abeba e Turu non riuscivano a credere che si facesse così tanto per loro e, quando hanno saputo che le cose acquistate dovevano considerarle di loro proprietà e non avrebbero mai dovuto restituirle, non riuscivano a crederlo. Il fatto di poter avere un letto di loro proprietà era una cosa proprio incomprensibile. Un letto tutto per loro! Non lo avevano mai avuto, prima di arrivare al Villaggio.

Ma, fatto questo, come aiutarle a mantenersi?

Anche questa volta la soluzione è arrivata quasi subito.

Yodith, una giovane che aveva imparato molto bene a cucire e ricamare presso le suore orsoline, che la ospitavano quando era in Eritrea, era appena arrivata al Villaggio chiedendo lavoro.

Così è nata la scuola di cucito e le prime due allieve sono state proprio Abeba e Turu, che è particolarmente brava.

Ora la scuola di cucito comincia a funzionare, ed altre donne, che hanno i bambini ricoverati nel Centro di Emergenza, vi partecipano. Sotto la guida di Yodith stanno imparando velocemente ed hanno cominciato a produrre alcuni manufatti belli ed interessanti: tovaglie, tovaglioli, coperture per cuscini, abiti locali ricamati.

Per il momento, per sostenere la scuola, Francesco acquista tutto quello che viene prodotto (lo porteremo in Italia per venderlo in qualche mercatino), in modo di potere così dare alle donne un compenso per il lavoro svolto, affrancandole dalla umiliazione di una elemosina, insegnare loro un lavoro, aiutarle nel loro inserimento nella vita.

Abeba e Turu vivono nelle loro casette. Al mattino arrivano al Villaggio con i loro bambini e vi si trattengono tutto il giorno, facendo lavori di cucito e mangiando al Centro di Emergenza. I bambini giocano con gli altri, passano il tempo con Ghidei, uno dei tre nonnini del Villaggio che racconta loro delle storie. La sera, rientrano nelle loro casette.

Sono felici, per il tanto “nulla” che possiedono, ma che rappresenta un “tutto”, nel quale, solo pochi mesi fa, non osavano sperare nè immaginare.

Turu è una profuga arrivata da noi dopo un  lungo viaggio a piedi. Anche lei è stata una delle prime donne venute a chiedere aiuto ed assistenza per il suo piccolo, gravemente denutrito. Anche lei era sola ad Adwa, dove era arrivata per caso. Così ha bussato al nostro cancello ed è entrata, senza saperlo, in un altro mondo: quello della speranza.

Turu é una ragazza che, per lungo tempo, ha vissuto abbastanza isolata dalle altre mamme del Centro. Ci colpiva sopratutto una cosa. Quando camminava,lo faceva solamente “strisciando” lungo i muri, con le mani che sfioravano la parete, per non perderne il contatto, a testa bassa, rapida e furtiva. Faceva veramente impressione vederla. Non si curava affatto della sua persona. Sempre scarmigliata e con i vestiti stracciati. Era difficile comunicare con lei. Preferiva il silenzio. Riusciva quasi a divenire invisibile ed era difficile accorgersi di lei, tanto si teneva nascosta, in disparte, sfuggente ed elusiva. Quale storia aveva alle spalle? Non lo sappiamo.

Poi, dopo alcuni mesi, le cose hanno iniziato piano piano a cambiare. Ora Turu è irriconoscibile. Ha cominciato ad avere cura del suo corpo e, per la prima volta, si è fatta fare le treccine. Non ha più bisogno di stare attaccata ai muri, per camminare, ma attraversa gli spazi aperti.

Sta insieme alle altre giovani mamme, con le quali ha fatto amicizia, ride e scherza ed è la più brava alla scuola di cucito di Yodith.

Anche quando Francesco e Nevia le hanno detto, insieme ad Abeba, che non poteva più stare nel Centro, perchè il suo bambino era in buona salute, non si è spaventata o preoccupata. Ormai aveva lasciato dietro di sè le sue paure e si fidava di Francesco e Nevia.

Turu. Quale è la sua storia? Non lo sappiamo e non abbiamo fatto alcuna domanda indiscreta nè forzato alcuna richiesta. Forse, un giorno, sarà lei a voler raccontare qualcosa. Forse non lo farà mai, per non rievocare un passato dal quale si è allontanata.

Quello che si può sapere è che, un giorno, è arrivato al nostro cancello un piccolo animale ferito e spaventato che, con il suo piccolo, cercava una tana dove ripararsi e nascondersi, che cercava di scomparire agli sguardi di tutti, che si spostava solo camminando lungo i muri, per rendersi più invisibile, che stava ad occhi bassi, in silenzio.

Ora quel piccolo animale è una giovane donna, di nome Turu, che cura le treccine dei suoi capelli, e si veste con abiti puliti e non più stracciati, che cammina attraversando gli spazi aperti, che ti guarda negli occhi sorridendo, che è la più brava alla scuola di cucito, che ride e scherza con le altre donne e che continua a raccontare a tutti, con gli occhi che le brillano di gioia, che ha un grande tesoro: una casetta dove abitare, con un letto tutto per lei e per il suo piccolo. Un letto: un tesoro incredibile. Come quelli delle favole. Ed è accaduto proprio a lei. A Turu.

Grazie, cari amici, per il tempo che avete dedicato a questa lettera, con la quale ho cercato di farvi partecipare alla vita del Villaggio, raccontandovi qualche storia che possa consentirvi di “vivere”, insieme con noi, uno degli eventi straordinari che, a volte, grazie al vostro aiuto, si verificano nel nostro piccolo “paradiso”: la realizzazione dei sogni, come nelle favole!

Un abbraccio affettuoso a tutti ed a presto!

Franco[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Associazione
James non morirà
Via Nicotera 29
00195 Roma