Anche questa volta il tempo è passato veloce ed è tanto che non mi faccio sentire, per darvi notizie ed informazioni sulla nostra attività. Me ne accorgo anche dalle richieste e dai solleciti che ricevo da coloro che scrivono per avere notizie, da coloro che manifestano il desiderio di leggere qualcuna delle tante storie che avvengono in quel lontano angolo di mondo e che tento di raccontarvi..
Storie, storie, storie. Quante storie da raccontare. Non so proprio da quale cominciare.
Nell’ultima lettera vi avevo promesso di raccontare quella di Trasina. Ho pensato però che sia meglio, visto che è una bella storia e che potrebbe avere un ulteriore sviluppo positivo, raccontarla la prossima volta, insieme ad un’altra storia, molto più drammatica ed accaduta di recente, proprio per contrapporla a quest’ultima.
Questa volta ho scelto di raccontarvi un’altra storia, una bella storia ed una esperienza personale.
La storia è legata alla costruzione della scuola per bambini ciechi, della quale vi ho parlato nel settembre dello scorso anno. Finalmente, dopo non poche difficoltà, la costruzione è stata completata. Grazie agli specifici finanziamenti ricevuti, ed in particolare a quelli di Nino, il costo della costruzione e dell’arredamento è stato quasi interamente coperto, senza dover ricorrere, se non in minima parte, alle altre disponibilità. Alla fine della scorsa primavera sono arrivati anche i banchi, le cattedre e gli altri mobili. La scuola dovrebbe iniziare ad operare già con l’anno scolastico 2008. Durante l’estate, le autorità locali, per favorire e diffondere la conoscenza della esistenza della scuola e per dimostrarne la utilità tra la popolazione, hanno organizzato un pre-corso, al quale hanno partecipato circa trenta bambini. Alle fine del corso sono stati anche premiati i più bravi. Prossimamente le autorità inaugureranno ufficialmente la scuola, che potrà quindi iniziare a svolgere la propria attività con corsi regolari. A Natale inserirò nel nostro sito alcune foto della scuola e delle aule, con i bambini che la frequentano.
Ma, come dicevo, alla costruzione della scuola è legata la storia di due fratelli: Hadera e G/Sghier.
Negli anni scorsi – Francesco era appena arrivato in Etiopia – una mattina, mentre era al mercato del sabato – quello che raduna tutte le genti dei villaggi circostanti che partono nella notte fonda, per arrivare al mattino e vendere o comprare la loro mercanzia, dopo anche otto o dieci ore di cammino – si accorse che una piccola mano si stava infilando nella tasca dei suoi pantaloni.
Era una piccola bambina, di sette od otto anni, che cercava di rubare qualche banconota dalla tasca di quel “ferengi” quello “straniero bianco”, l’unico bianco in quel mercato di sola gente africana.
La bambina veniva al mercato del sabato per chiedere l’elemosina e, per impietosire di più le persone, portava anche il fratellino cieco, di tre o quattro anni più grande di lei.
Il sorriso e lo sguardo che la bimba, per nulla spaventata, rivolse a Francesco, lo conquistarono immediatamente, malgrado il maldestro tentativo di furto e fecero svanire, prima ancora che riuscisse a manifestarsi, ogni istintiva reazione.
Francesco vide i due bambini e, soprattutto, vide lo sguardo ed il sorriso di Hadera spuntare dal quel visetto bello e sporco. Si inginocchiò vicino a lei, le fece una carezza, le sorrise, mentre lei continua a guardarlo ed a sorridergli. Poi la prese per mano e se la portò dietro, mentre girava per il mercato.
Francesco, quel sabato e nei sabati successivi, quando andava al mercato, chiedeva ad Hadera di fare alcuni acquisti per suo conto e, quando lei tornava con le cose che Francesco le aveva richiesto, la premiava con qualche banconota, che Hadera prendeva con orgoglio. Un modo per evitare di darle una elemosina e per cercare di stabilire pian piano con lei un rapporto di fiducia.
Un giorno, per caso, mentre girava per Adwa andando a cercare le famiglie più povere, Francesco scoprì dove abitavano i due bambini. Così fu possibile aiutarli in modo più continuo e stabilire con loro un rapporto personale, che servì a convincere il fratellino più grande ad accettare la proposta di Francesco di frequentare una scuola per ciechi. G/Sghier si è così trasferito in un’altra cittadina, piuttosto distante da Adwa, dove esiste una scuola per ciechi che ha potuto frequentare e dove vive in permanenza, ritornando a visitare la famiglia un paio di volte all’anno.
Nei mesi scorsi G/Sghier è tornato ad Adwa per una di queste periodiche visite alla famiglia.
Una mattina, insieme alla sorella Hadera, si è presentato al nostro villaggio. È diventato un ragazzo grande di circa 16/17 anni e, dopo averci salutato e raccontato brevemente della sua vita e della scuola, che ha quasi terminato, ci ha espresso il desiderio di parlare a tutti i bambini che vivono nel nostro villaggio, ai quali intendeva raccontare la propria storia.
Abbiamo accolto con sorpresa e gioia la sua richiesta e abbiamo organizzato l’incontro, al quale hanno partecipato non solo i bambini, ma anche buona parte dei lavoranti del nostro Villaggio.
G/Sghier ha cominciato a parlare, con piglio autorevole e deciso, dicendo cose inaspettate.
Così si è rivolto ai bambini: voi, vedendomi, pensate che io sia cieco? Io ero cieco. Voi credete che essere ciechi sia una disgrazia? Una volta lo credevo anch’io. Voi pensate che essere ciechi condanni a dover vivere chiedendo l’elemosina? Lo pensavo anch’io. Voi credete che la cecità sia una malattia che deriva da una maledizione? Lo credevo anch’io.
Poi ha preso un libro scritto in braille e, sfiorandolo con le mani, ha cominciato a leggere. I nostri bambini lo guardavano con gli occhi sgranati, non riuscendo a credere a ciò che vedevano ed interrogandosi sottovoce l’un l’altro, come se stessero assistendo ad uno spettacolo di magia.
Vedete, ha detto G/Sghier, io riesco a leggere utilizzando le dita. Leggo esattamente come voi e posso anche scrivere e rileggere ciò che ho scritto. Dunque sono come voi, posso imparare le stesse cose che imparate voi a scuola e, in effetti, le ho imparate. Ed ha cominciato a parlare di geografia, di aritmetica, di storia. Ha anche effettuato alcuni semplici calcoli, addizioni e moltiplicazioni, lasciando ancor più stupefatti i nostri bambini. Dunque, ha proseguito G/Sghier, io non sono più cieco, perché leggo e scrivo come voi. Non sono condannato a vivere per tutta la vita chiedendo l’elemosina, ma posso trovare un lavoro e, spero, proseguire negli studi. La cecità non è una disgrazia che condanna per tutta la vita, ma solo una difficoltà in più che, con la volontà, si può superare. La cecità non è una maledizione del cielo od un malocchio inviato da qualcuno. La cecità è la conseguenza di malattie che, come nel mio caso, derivano dalla mancanza di pulizia e dalla mancanza di cure.
Io sono riuscito a vincere la “condanna” della cecità, grazie all’aiuto che mi è stato offerto. La mia vita, grazie a questa possibilità, è cambiata completamente e, per il mio futuro, ho fiducia, molta fiducia. Anche a voi, che vivete nel Villaggio è stata offerta una possibilità, come è stata offerta a me. Non buttatela via. Ringraziate per l’occasione che vi viene donata. Impegnatevi nello studio, imparate più che potete. Sfruttate tutte le possibilità che Francesco e Nevia vi offrono. Siete bambini fortunati, perché avete una occasione unica, che pochi altri hanno.
Per il mio futuro ho anche un sogno. Vorrei essere uno dei maestri della scuola per ciechi che Francesco e Nevia hanno costruito qui ad Adwa. Così potrei tornare nella mia città, con la mia famiglia, dove ho passato la mia infanzia e potrei essere di aiuto a tanti altri bambini che, come me, sono diventati ciechi, per aiutarli a capire che la cecità non deve essere considerata come un handicap insormontabile o come una maledizione, ma come una malattia che si può vincere. E spiegare anche che, con la pulizia e con le cure, è possibile evitarla.
Volevo proprio dirvi questo e dimostrarvi che è possibile. E, soprattutto, pensate a quanto siete fortunati ad essere stati accolti ed a vivere nel Villaggio, andare a scuola, avere una casa ed avere due genitori come Francesco e Nevia che vi vogliono bene e che desiderano il vostro bene.
Poi G/Sghier ha chiuso il suo libro e ci ha ringraziato per avergli dato l’opportunità di parlare.
Era lui che ci ringraziava, mentre pensavamo che nessuno, neppure dietro suggerimento, avrebbe potuto fare un discorso così bello e così concreto.
Era sceso, nella sala dove aveva parlato, un silenzio pieno commozione, rotto all’improvviso dalle grida dei bambini che gli sono corsi intorno per abbracciarlo, toccarlo, tenergli la mano.
Quando ci ha salutato, ci siamo abbracciati forte e lui si è accorto benissimo della nostra commozione. Come non esserlo? Chi poteva immaginare che da G/Sghier, il piccolo mendicante del mercato di alcuni anni prima, potesse venire un discorso così profondo e così meraviglioso.
Soprattutto nei confronti dei nostri bambini che, avendolo ascoltato da uno di loro, lo ricorderanno molto meglio e lo terranno in grande considerazione.
E Hadera? È una bellissima fanciulla anche se non ha una vita facile. La madre è gravemente malata, sia fisicamente che mentalmente, quindi del tutto inabile a qualsiasi lavoro, necessitando essa stessa di assistenza. Così Hadera, oltre all’impegno scolastico, la sera deve occuparsi della mamma, della casa, di preparare da mangiare e di provvedere anche agli altri fratellini più piccoli.
Ha solo 13 anni, circa.
Al mattino frequenta la scuola, poi resta fino al tardo pomeriggio nel Villaggio per fare i compiti e giocare un po’ con le amichette più grandicelle. Poi scappa a casa, per svolgere tutto il lavoro che l’aspetta.
Ma queste difficoltà, che purtroppo non sono infrequenti, non incidono sulla sua volontà e sulla sua determinazione anche se, quando può, si accoccola volentieri tra le braccia di Nevia o di Luciana.
È la prima della classe e anche lei, come il fratello, coltiva un sogno, che ci ha manifestato.
Desidera diventare infermiera o maestra per venire ad aiutare i nostri bambini
Hadera, la piccola ladruncola e G/Sghier, il fratellino cieco. Da piccoli mendicanti, da bimbi senza speranza, a ragazzi bravissimi a scuola e con dei sogni per il loro futuro.
Per loro – grazie a tutti i nostri amici, sostenitori ed offerenti – si sono veramente aperte le porte di quel piccolo paradiso, che è il Villaggio.
Infine qualcosa di diverso.
Il racconto di un avvenimento accadutomi personalmente, che desidero condividere con tutti voi.
Ad Adwa transitano di frequente gruppi di profughi dall’Eritrea. Si tratta di persone che hanno discendenza o parentela etiopica o comunque un legame con questa nazione, che le autorità dell’Eritrea cacciano dal paese – in genere all’improvviso, senza permettere loro di vendere i propri beni o portarli con loro – caricandole su dei camion e scaricandole al confine con l’Etiopia. Si tratta di un flusso continuo, di gruppi di alcune migliaia di persone. A volte si tratta “solo” di due mila, altre volte i gruppi sono assai più numerosi. I profughi vengono accolti in un campo appositamente allestito ad Adwa, che è vicinissima al confine, dove sono ospitati ed alloggiati in grandi tendoni neri, nei quali le strutture igieniche sono ovviamente limitate ed insufficienti. I profughi vivono nel campo per un periodo più o meno lungo, mentre le autorità cercano di favorire i ricongiungimenti familiari, anche con lontani parenti. Per coloro per i quali non è possibile alcuna soluzione del genere, si provvede con un aiuto economico che consenta loro una prima sistemazione, lasciando poi a ciascuno il compito di provvedere al proprio futuro.
Le necessità dei profughi sono di ogni genere, ma tutti, in sostanza, attendono di avere notizie circa la possibilità di un ritrovamento di parenti, per una prima sistemazione ed una uscita dalla drammatica situazione del campo profughi, ovvero dell’arrivo dell’aiuto economico che, in qualche modo, dia la possibilità e la speranza di una sistemazione più adeguata e meno provvisoria.
Nei mesi scorsi le autorità locali ci hanno chiesto un aiuto per le necessità del campo profughi, aiuto che, è stato precisato, doveva consistere nella fornitura di sapone e carta igienica. Abbiamo quindi provveduto ad acquistare molte centinaia di rotoli di carta igienica e di saponette che sono stati caricati sulla nostra auto. Al mattino, insieme ad un nostro aiutante, sono andato personalmente ad effettuare la consegna. L’entrata al campo già provoca una stretta al cuore: i militari di guardia alla sbarra di ingresso effettuano scrupolosi controlli prima di lasciarci entrare, ed esaminano con attenzione i documenti forniti dalle autorità locali, dove sono indicati i materiali che vengono introdotti. Finalmente la sbarra si alza e ci lascia entrare, con l’invito a fermare la macchina in uno spiazzo, vicino al tendone che funge da magazzino, per poter scaricare quello che abbiamo portato e controllare il numero dei pezzi che lasciamo.
Appena entrati, i primi a correrci incontro sono i bambini, che giungono a frotte, uscendo dai tendoni. Sembra che non abbiano mai fine e circondano la nostra auto, rendendo difficile percorrere anche il breve tratto che ci separa dal punto dove dobbiamo fermarci. Finalmente arriviamo allo spiazzo indicato, ma per uscire dall’auto devono aiutarci gli addetti al magazzino, aprendo gli sportelli dall’esterno. Appena sceso mi trovo decine di occhi e di visetti puntati all’insù che mi guardano nel modo sfrontato che hanno i bambini, incuriositi dalla mia faccia. Confesso che provo un certo disagio. Sono bambini di un campo profughi, sporchi più degli altri, pieni di infezioni cutanee, in genere funghi o tigna, con gli occhi, le narici e gli angoli della bocca aggrediti da miriadi di mosche che loro non provano neppure a scacciare, tantissimi sono visibilmente pieni di pidocchi. Mi stringono da ogni lato, mi prendono le mani, mi danno colpi con le mani per richiamare la mia attenzione e, quando ne guardi uno negli occhi, vedi apparire sorrisi o risate e risatine che sono insieme di vergogna, di curiosità e di interesse, oppure visetti che restano immobili, fissandoti con quegli occhi grandi e scrutatori, che ti fanno desiderare un loro sorriso, una risata, piuttosto che quella immobilità profonda, che ti da il senso di una angoscia e di uno smarrimento non compresi, ma ben impressi nelle loro piccole menti e che, purtroppo, in molti casi, li accompagneranno per il resto della loro vita. Il disagio aumenta e diventa anche fisico. Sono spaventato da tutto quel contatto con quei corpicini così sporchi, così pieni di croste, di funghi, di tigna, di pidocchi, di pulci, di infezioni di ogni genere. L’istinto sarebbe quello di allontanarli, di porre tra me e loro una distanza di sicurezza, una barriera che mi “protegga”. Vorrei fuggire. Ma non faccio neppure in tempo a provare questa sensazione che arrivano gli adulti i quali, ancor più dei bambini, vengono a vedere, pieni di speranza, che cosa sia arrivato. Vorrebbero notizie dei parenti, delle loro sistemazioni future. Informazioni sugli aiuti economici od una notizia che consenta loro di porre la parola fine alla permanenza nel campo profughi. Ma porto solo sapone e carta igienica: quello che ci hanno richiesto. Gli adulti, ancor più dei bambini, mi si affollano vicino, mi aderiscono con i loro corpi e, senza che possa fare nulla, vengo completamente immerso in questa poltiglia di persone, in questa melassa di corpi che si toccano, si uniscono, si mischiano, a formare una massa omogenea, uniforme, gelatinosa, vischiosa, dove non c’è più una singola identità. Tutti vogliono sapere, tutti vogliono vedere e, ad ondate regolari, la melassa si muove e si ricrea con nuovi corpi, nuovi colori, nuovi odori, nuove voci, senza perdere per un attimo la sua incredibile densità. Mi sento irrimediabilmente immerso in questa melassa, che mi penetra in ogni poro della pelle, contaminato da tutti quei corpi, con tutta la loro sporcizia, le loro malattie, i loro odori. Penso che mi verranno tutte le possibili infezioni della pelle e che rientrerò pieno di pulci e di pidocchi. Ma non posso fare nulla, se non rimanere immerso, contratto e teso, in quella poltiglia che mi avvolge e mi ingloba, che incolla i corpi uno all’altro, che mi impedisce fisicamente ogni movimento. Improvvisamente, vicino a me si materializza un giovane profugo che, in inglese, mi chiede di quale organizzazione umanitaria io faccia parte. Gli dico il nome della nostra Fondazione, che ovviamente non conosce, spiegandogli che ci occupiamo però di bambini orfani. Senza ascoltare la mia risposta mi chiede cosa ho portato: denaro o notizie per i ricongiungimenti familiari? Gli rispondo di no. E allora cosa hai portato, mi chiede, con una visibile insofferenza e delusione. Carta igienica e sapone, gli rispondo. Mi guarda fisso negli occhi e mi chiede “ma tu conosci la nostra situazione?” Gli rispondo di si. Lui non replica, ma continua a guardarmi negli occhi. Cerco di giustificarmi: è quello che ci hanno chiesto di portare, aggiungo. Lui mi guarda ancora, poi scompare, risucchiato da un’onda della poltiglia di persone che mi circonda. Mi sento in colpa. Solo carta igienica e sapone. La sua domanda ed ancor più il suo sguardo mi battono nella testa come un maglio: “ma tu conosci la nostra situazione?” Provo un senso di vergogna indescrivibile. Eppure abbiamo portato quello che ci è stato richiesto. Anzi è un di più, perché della gestione dei campi profughi e delle relative necessità devono farsi carico le autorità locali con i fondi messi appositamente a disposizione dal governo. Eppure il senso di vergogna, di inadeguatezza alla enormità degli sterminati bisogni mi prende lo stomaco. Qui ci sarebbe bisogno di tutto e di ben altro, con un impiego di forze, di persone e disponibilità economiche enormemente superiori. Non capisco perché sono finito in quel campo profughi a portare solo carta igienica e sapone ed a sentirmi anche dire, come rimprovero: “ma tu conosci la nostra situazione?” Come a dire: ma che pensi di avere fatto rispetto ai nostri bisogni? Proprio non hai la minima idea di quello che occorre. Tu non vivi e non sei mai vissuto in un campo profughi ed arrivi qui, con la tua auto, a portarci carta igienica e sapone. E noi abbiamo bisogno di tutto. Sono confuso. Il caldo è infernale e la massa di persone che mi aderiscono peggiora la situazione, facendo mischiare i nostri sudori e quasi non mi lascia respirare… Il controllo del materiale che abbiamo portato è terminato. I guardiani del magazzino cominciano ad urlare ed a spintonare per far allontanare bambini ed adulti. La maggior parte si accalca davanti al magazzino, chiedendo di avere subito un sapone ed un rotolo di carta igienica. Il mio accompagnatore mi dice che possiamo andare. Finalmente, penso. Improvvisamente riappare il giovane con il quale avevo parlato, che mi viene incontro decisamente indicandomi con un dito della mano. Penso che voglia insultarmi. Mi giunge dinanzi e, inaspettatamente, il viso si distende in un bellissimo sorriso, mi porge la mano e me la stringe forte. “Grazie, che Dio ti benedica” è il suo saluto, che mi coglie del tutto alla sprovvista. Penso ad una risposta, ma mi trovo a ripetere le stesse cose che mi ha detto. Vorrei aggiungere qualcosa, ma non riesco a dire nulla. Alcuni bambini che mi hanno di nuovo circondato e mi tirano da tutte le parti, mi distraggono per un attimo, mi chino su di loro per qualche carezza. Quando rialzo lo sguardo incontro di nuovo quello del giovane sconosciuto che continua a sorridermi. Ed è un sorriso di ringraziamento. Dunque anche il sapone e la carta igienica hanno, in qualche modo, portato un poco di sollievo. Assiste alla nostra partenza e mi saluta con la mano, sempre sorridendo. Quello che ha detto ha avuto il potere di eliminare ogni timore e malessere e di farmi vergognare delle mie paure e del mio disagio.
Torno al Villaggio dove, necessariamente, faccio una doccia e cambio tutti i vestiti, comprese le scarpe. Per la cronaca, nessuna delle mie fosche previsioni sanitarie si è avverata: la doccia ha lavato via tutto.
Però mi rendo conto che un altro tipo di disagio, che provo sempre in situazioni similari od analoghe, è rimasto e, credo, rimarrà sempre. Quello di constatare, ogni volta, che la mia posizione è sempre e comunque grandemente privilegiata. Sono sempre al di qua di quella ideale linea di divisione, che separa chi porta aiuti, da chi li riceve. Ed è una linea terribile ed invisibile ma più dura e concreta che se fosse di ferro od acciaio. Desidero riuscire ad imparare un atteggiamento sempre più semplice, che riesca ad annullare o ad addolcire questa linea di divisione, che possa far sentire alle persone che non esiste più, che anch’io sono passato dall’altra parte, almeno per il tempo dei nostri incontri, della distribuzione degli aiuti. Che sono sempre una goccia, in un oceano di necessità
Sento che ho il dovere di provarci, anche se ho l’impressione che sia molto difficile, se non impossibile.
Perché, dopo, io ho acqua e cibo a volontà, vestiti, una casa, il ritorno in Italia. Loro invece restano lì, con il poco che hanno ricevuto e che devono far bastare.
Più del nulla di prima. Nulla rispetto al mio tutto.
E resta sempre una domanda: perché io sono nato da questo lato di quella linea ideale e loro dall’altra parte? Fortuna? Caso? E che senso ha il tutto? Continuare a rifletterci mi farà bene.
Un saluto e a presto
Franco[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]