A Settembre dello scorso anno, quando vi avevo inviato la precedente newsletter, la scuola per ciechi non era stata ancora ufficialmente inaugurata. L’inaugurazione è avvenuta a Novembre, con una grande festa. È arrivato, dopo avere attraversato la città, un corteo composto dalle donne dell’ufficio affari sociali, vestite con il tradizionale abito bianco della festa, precedute da un trombettiere che, ogni pochi passi, soffiava nella tromba, gridando forte per far conoscere il motivo del corteo. Subito dopo le donne iniziavano i canti, le invocazioni e le grida tipiche delle cerimonie, con alcune di loro che camminavano con passi di danza, accompagnate dal ritmo di alcuni tamburi, percossi da altre donne del gruppo. Questo mi ha riportato, con forza, a quando ero bambino e trascorrevo l’estate in un paesino montano dell’Abruzzo. Alcuni giorni della settimana, al mattino presto, si veniva svegliati dal suono acuto della trombetta del banditore che passava per le vie del paese per trasmettere l’annuncio che gli era stato affidato da un commerciante, dalle autorità comunali, dal parroco o da qualcun altro, annuncio dal quale, per la verità, si capiva ben poco. Difatti le donne, sentendo il suono della trombetta, si affacciavano all’uscio di casa e chiedevano al banditore quale fosse il messaggio, altrimenti incomprensibile. Mi ha ricordato anche che il banditore era un povero uomo, piccolo e magro, completamente cieco e con diversi figli piccoli, che viveva in un paesino distante circa quattro chilometri. Il giorno del bando arrivava al mattino presto, dopo avere percorso a piedi la distanza, accompagnato, a turno, da uno dei suoi figli. Girava poi per le strade del paese per fare l’annuncio e, al termine, riprendeva la strada di casa con il modestissimo compenso che gli veniva assegnato, spesso solo in natura, ma che per lui e la sua affamata famiglia rappresentavano un pasto più consistente del solito.
Ma, tornando alla nostra cerimonia, il corteo, che aveva ovviamente un lento avanzare, aveva un suo fascino e, con questi canti, suoni, grida, ritmo di tamburi, danze, finiva per incantarti ed affascinarti, pur nelle sua semplicità e ripetitività. Finito il corteo, del quale abbiamo visto solo l’ultima parte del tragitto, è iniziata la cerimonia ufficiale, alla presenza di tutte le autorità, con discorsi e consegna di attestati di riconoscimento.
È stata, non senza sorpresa, una cerimonia gradevole e nella quale si è anche respirata una certa commozione. La cosa che più mi ha colpito è stata la partecipazione dei principali esponenti delle più diffuse religioni locali, ortodossa ed islamica, che sono intervenuti, parlando uno accanto all’altro e spezzando e benedicendo, insieme, ciascuno con una propria preghiera, la “ambascià”, il pane tradizionale locale che viene preparato per le feste. Poi i pezzi di pane sono stati distribuiti a tutti, in segno di condivisione della gioia per la festa.
Essere ciechi è già una delle più grandi disgrazie che possano capitare. Esserlo in un paese come l’Etiopia, dove sono rarissime le scuole e le strutture specializzate, significa dover vivere una vita da abbandonati, segregati, accattoni, ignoranti. Significa che la vita di tutti i giorni, finchè si può stare nella propria famiglia, non è niente altro che rimanere seduti all’interno di una capanna o, al massimo, davanti alla porta. Senza poter fare nulla, senza alcuna speranza, senza niente che ti dia la forza di poter vivere.
Vedere quel gruppo di ciechi di ogni età che, tenendosi per mano, hanno presenziato alla cerimonia di inaugurazione, e sentire le loro semplici parole di commosso ringraziamento, per l’opportunità che veniva loro offerta, mi ha molto colpito e mi ha fatto inviare, mentalmente, un pensiero, un grazie, un abbraccio, a tutti i nostri amici, a tutti coloro che ci hanno aiutato a compiere anche questa piccola grande opera. Avrei voluto che tutti fossero lì, a vivere e sentire l’emozione ed il valore di quel momento, a sentire parlare i ciechi di “possibilità di avere una vita”, a vedere le due religioni unite nella benedizione dell’iniziativa, a vedere la popolazione così coinvolta.
Rendersi conto e sentire, nel proprio cuore, che quella scuola può veramente, in qualche modo, ridare la vista. Lo aveva detto G/Sghier, il fratello di Hadera, del quale vi avevo fatto cenno nella mia precedente. Ora c’era finalmente modo di constatarlo personalmente.
Grazie a tutti!
Nei giorni scorsi, il nostro Villaggio di Adwa è rimasto isolato e, per un tempo abbastanza lungo, siamo rimasti completamente privi di notizie.
Poi, finalmente, è arrivata una chiamata di Francesco per tranquillizzarci. Cosa era successo? Nell’effettuare i lavori di costruzione di una strada, che passa vicino al nostro Villaggio, sono stati tranciati numerosi cavi telefonici, lasciando quasi tutta la città priva di comunicazioni telefoniche, e conseguentemente anche di internet. Poi, finalmente, i cavi sono stati riparati, così le comunicazioni sono state ripristinate.
Non mancava altro, abbiamo commentato con Francesco.
Si perché, in questo periodo, la situazione complessiva è assai preoccupante.
Vi sono due problemi fondamentali: la siccità e le riserve valutarie.
Quanto alla scarsità di riserve valutarie il paese sta soffrendo, perché tale situazione riduce notevolmente la possibilità di effettuare gli acquisti dall’estero che, ovviamente, vengono effettuati nelle valute comunemente accettate (dollari ed euro). La scarsità di beni di ogni genere, dal latte in polvere ai medicinali ai macchinari ed al cemento per le costruzioni, sta creando problemi assai gravi. Questa scarsità di beni si riflette poi anche sui prezzi, che nell’ultimo anno sono saliti vertiginosamente e che, nel periodo più recente, stanno subendo una impennata paurosa, con una inflazione che non ha stime ufficiali ma che ha comportato, nel giro di un anno, l’aumento dal 300% al 400% dei beni di prima necessità: teff, riso, pasta, combustibili, medicinali. Si tratta di un aumento di prezzi che è generalizzato nel mondo ma che, in alcuni paesi, è particolarmente grave.
Tale situazione è aggravata in modo terribile dalla siccità. Difatti sono saltate le piccole piogge, che in genere avvengono tra febbraio ed aprile, facendo perdere una dei due raccolti annuali sui quali fa affidamento tutta la popolazione rurale, che costituisce la grandissima maggioranza della popolazione etiopica. Le grandi piogge, che dovevano iniziare ai primi di giugno, ancora non si sono viste. Ciò ha comportato la drastica riduzione dei pochi invasi esistenti ed il quasi prosciugamenti dei vari fiumiciattoli, torrenti e ruscelli. La riduzione del livello degli invasi ha comportato il razionamento dell’acqua e della elettricità che è in gran parte fornita da energia idroelettrica. Al momento, sia luce che acqua vengono erogate a giorni alterni. Il problema non è soltanto della nostra zona, ma si estende all’intero paese. Molte fabbriche ed attività hanno già dovuto chiudere. Quelle che, per la natura dei beni prodotti possono farlo, lavorano a giorni alterni.
Questo riduce ogni tipo di produzione e crea disoccupazione, sottoccupazione e miseria. Non esiste alcun tipo di ammortizzatore sociale, come la nostra cassa integrazione, per cui, nei giorni in cui la fabbrica è chiusa, non si percepisce lo stipendio.
Ma, ultimamente, con l’aggravarsi della siccità, anche nei giorni di erogazione di luce ed acqua, questo avviene non per l’intera giornata, ma per poche ore, ad orari imprevedibili. Così siamo stati costretti a dislocare una persona che, al mattino, stia a verificare il manometro dell’acqua, per avvisarci immediatamente quando inizia l’erogazione, per poter fare la scorta necessaria di acqua da bere. Questo perché l’erogazione dura poche ore, nel corso delle quali la pressione varia per cui a volte, solo per pochi minuti abbiamo la pressione sufficiente per la scorta potabile, che utilizza un filtro che richiede l’esistenza di una pressione minima. Per fortuna abbiamo anche un altro filtro, che utilizzavamo inizialmente, il quale però è sostanzialmente solo un filtro e non un potabilizzatore di acqua. Però l’abbiamo bevuta per diversi anni e possiamo continuare a farlo anche adesso, sperando che la scarsità di acqua non comporti anche una qualità peggiore.
Per fortuna lo scorso anno abbiamo deciso di scavare, all’interno del Villaggio, un altro pozzo che ha una portata circa doppia del primo pozzo. Così riusciamo, con i due pozzi, ad avere almeno l’acqua per cucinare, per lavarsi e per mantenere in vita il nostro orto, dal quale tutto il Villaggio si approvvigiona per frutta e verdure
Quanto alla luce facciamo fronte con il generatore, per il quale stabiliamo però alcuni turni di accensione, ad evitare un sovraccarico. Se dovesse rompersi, saremmo veramente nei guai.
Ad evitare questo sovraccarico, derivante anche dell’utilizzo dei “mogogo” elettrici – cioè delle piastre che vengono utilizzate per cuocere la “injera” il pane locale che costituisce la base dell’alimentazione – stiamo facendo funzionare dei “mogogo” a carbone.
Però dobbiamo sempre tenere d’occhio il frigo dove si conservano alcune medicine ed i congelatori dove sono conservati alcuni cibi ed accendere il generatore in modo tale che le temperature, all’interno, si mantengano.
Ma la siccità è terribile ed il calore insostenibile. Si bevono almeno sei litri di acqua al giorno a persona, tanta è l’evaporazione dovuta al caldo ed al secco. Di notte è difficile riposare ed al mattino ci si sveglia più stanchi di prima. Sembra di avere dei sacchi di sabbia sulla testa.
Abbiamo notizia che in un paio di cittadine che si trovano nella regione, sono completamente privi di acqua potabile che viene portata, di tanto in tanto, con delle cisterne.
Il piccolo ospedale di Adwa è allo stremo. Non hanno un generatore né pozzi per l’acqua. Ed è l’unico ospedale della zona.
Se non pioverà sarà una catastrofe. Negli ultimi decenni l’Etiopia è stata colpita da gravissime carestie ogni 12 anni. Le ultime sono state nel 1984 e nel 1996. Si aspettava un’altra carestia nel 2008 che, per fortuna, non c’è stata. I timori sono che abbia solo ritardato di un anno. Non vogliamo minimamente pensare a questa ipotesi, perché sarebbe terrificante.
Venerdì c’è stata finalmente pioggia ma, in realtà, si è trattato di una terribile grandinata e bufera di vento che è andata avanti per più di un’ora, con violenza inaudita. Sono state scoperchiate diverse casette all’esterno del Villaggio, distrutte molte capanne, abbattute molte infrastrutture e pali della luce. Molti alberi sono stati sradicati, due all’interno del Villaggio, e distrutte tutte le piccole coltivazioni. Il nostro orto è stato quasi raso al suolo. Così, alla fine non si sa se siano stati maggiori i benefici rispetto ai danni.
Ieri c’è stata solo pioggia, finalmente. Aspettiamo i prossimi giorni, nella speranza che le piogge abbiano solo ritardato, che la nefasta ombra della carestia possa essere allontanata, che le fabbriche possano riprendere a lavorare e che il paese possa risollevarsi da questa situazione che pone a rischio un elevatissimo numero di persone.
Questa mancanza di acqua mi ha fatto venire in mente una situazione che abbiamo trovato ad Adwa nei primi anni della nostra presenza e che sembrava fortunatamente ormai molto ridotta, anche se non del tutto scomparsa. Spero proprio che l’attuale situazione non la debba far rinascere.
Vi racconto dunque la storia che desidero dedicare a tutte quelle persone che, inviandoci delle donazioni, quasi si “scusano”, per quella piccola goccia che il loro dono rappresenta, nel grandissimo e smisurato oceano delle necessità. Rispondo cercando di spiegare che nessuno, da solo, può risolvere nulla e che, anche se ci si unisce, si fa sempre qualcosa che è “piccolo”, rispetto al bisogno. Ma quanto piccolo o quanto grande? Ci mancano i parametri di riferimento. Così questa storia, che mi è venuta in mente pensando all’attuale situazione di siccità, spero possa consentire di comprendere, in modo concreto, quanto può “valere” o “pesare” il dono di ciascuno.
Si tratta di un valore che ha un proprio peso specifico, anzi due.
Uno è quello che deriva dall’animo e dal cuore di chi dona, dal sacrificio che il dono comporta, dal desiderio che il proprio dono rechi concreto sollievo a qualcuno, dalla partecipazione che si mette in questo dono e che gli fa acquisire un peso, diverso l’uno dall’altro.
Poi, però, c’è anche il peso specifico che misura, in concreto, quanto “vale” quel dono, cosa si può fare con quella somma.
Quanto “vale” una goccia?
Un euro è veramente una goccia. Ma quanto “vale” un euro? Quanto “vale” questa piccola goccia?
Come vi dicevo, nei primi anni della nostra presenza ad Adwa, le donne, ed anche le bambine, portatrici di acqua, era assai diffuse. Anche oggi è facile vedere donne e bambine che portano sulle spalle pesanti taniche di acqua, riempite alla fontana od al più vicino fiumiciattolo. Ma si tratta di trasporto per uso familiare.
In quei giorni molte donne – soprattutto analfabete, oppure sole con figli a carico, ovvero venute dai villaggi circostanti – svolgevano il lavoro di trasporto acqua per conto di altri. Poteva trattarsi di richieste da parte di nuclei familiari o da parte di esercenti piccole attività commerciali. Si trattava di un vero e proprio lavoro. Ogni viaggio consisteva nel trasportare una tanica di acqua da 25 litri, dal fiume fino alla casa del richiedente. Mediamente si trattava di tragitti di circa 1/1,5 km per cui, tra andata e ritorno, si percorrevano, per ogni singolo viaggio, almeno 2,5 km.
Molto spesso a piedi nudi.
Ogni viaggio aveva un prezzo standard: 25 centesimi di birr, per cui occorrevano quattro viaggi per poter guadagnare un solo birr. All’epoca il rapporto con l’Euro era di uno a dieci, quindi occorrevano dieci birr per guadagnare un Euro.
I conti sono presto fatti. Quattro viaggi per guadagnare un birr, 40 viaggi per guadagnare 10 birr, cioè il corrispondente di un euro. E quaranta viaggi significa avere percorso almeno 100 chilometri ed avere portato 40 taniche di acqua per un totale di 1.000 kg, una tonnellata!
Il salario minimo di un manovale, all’epoca, era di circa 250/300 birr al mese, pari a circa 10 birr al giorno. Quindi, dopo aver percorso 100 chilometri ed avere trasportato a piedi nudi una tonnellata, ci si ritrova ad avere guadagnato circa l’equivalente di una giornata di lavoro di un manovale.
Ma per le portatrici di acqua è impossibile guadagnare questo importo in un giorno, ne occorrono almeno tre o quattro. C’è sempre qualcuno più povero di colui che pensiamo essere il più povero. E ci sono sicuramente altri, più poveri delle portatrici di acqua.
Quanti pensavano che un euro, un solo euro, “valesse” e “pesasse” tanto?
Quanto?
Semplice 100 chilometri percorsi e 1.000 litri trasportati sulla schiena.
Credo che, con questi parametri, sia più facile comprendere quanto ogni dono, anche il più piccolo, abbia, sul posto, un valore ed una efficacia così incredibilmente moltiplicati.
Oggi, come vi dicevo, le portatrici di acqua sono ormai pochissime. L’auspicio è che questa siccità, se dovesse continuare, non faccia rinascere un mestiere che dovrebbe invece essere sepolto per sempre.
Ho voluto terminare questa nostra periodica comunicazione, con questo messaggio che considero aperto ad una grande speranza e che è, a sua volta, una semplice goccia, rispetto alle tante storie, destinate a restare sconosciute, che si svolgono in quel piccolo angolo di mondo dove, insieme a voi, stiamo cercando di portare qualche goccia.
Gocce. Piccole gocce. Piccole gocce di speranza e di gratificazione che vogliamo condividere anche con tutti voi. Perché, come abbiamo visto nella storia che vi ho raccontato, sono gocce che, venendo dall’Etiopia, dove il peso specifico di tutto è così grande, riescono, come piccole lacrime, a “bagnare” anche tutti voi, che siete geograficamente lontani, ma così vicini con il vostro cuore ed il vostro affetto, facendovi partecipare a questa piccola grande gioia ed a questa luce di speranza per il futuro del Villaggio e dei bimbi che vi hanno trovato quella casa e quegli affetti dei quali la vita li aveva privati.
Un abbraccio affettuoso a tutti
Franco.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]