Non ho potuto che dire: Grazie Simona.
Per essere venuta ad Adwa, per avere desiderato vedere, conoscere, vivere e condividere la realtà del Villaggio e dei suoi abitanti, i piccoli, i grandi.
E per averne voluto scrivere. Lascio a ognuno di voi le sue parole, come un piccolo dono di Natale.
A me, hanno fatto bene al cuore.
Luciana
Nemmeno una nuvola.
Per una settimana, non c’è stata nemmeno una nuvola. Né in cielo, né dentro di me.
È successo ad Adwa, Etiopia del Nord, nel Villaggio dei Bambini, e a Maga’ Uma, un luogo magico e sperduto al confine con l’Eritrea. Sono partita da Milano con un bagaglio pesante: la mia vita di tutti i giorni, che come tutte le vite da adulti, è complicata. Sono tornata con la leggerezza come cognome. Sono partita con mal di schiena e movimenti incerti. Sono tornata forte, con le spalle dritte, e un paio di ali invisibili da qualche parte tra le scapole.
Il cancello che ti accoglie nel Villaggio è verde. Verdissimo. Una luce, più che un colore. Quando il guardiano sente il rumore del fuoristrada che arriva, lo apre dall’interno, ma tu non lo vedi, e sembra che si apra da solo.
La prima “magia reale” che accade, è questa. L’accoglienza. I bambini piccoli con i fiori. I più grandi con le strette di mano imbarazzate e gli sguardi incuriositi.
La cosa incredibile è che l’accoglienza non avviene solo quando arrivi. Si ripete tutti i giorni, ogni volta che ci si incontra nella sala colorata dell’asilo, nella mensa, nella nursery, sul ciottolato affiancato dai fiori. Una festa perenne. Un correrti incontro, chiamare il tuo nome all’infinito, appendersi alla schiena, alle braccia, alle gambe, allo sguardo, ai pensieri.
Tutto luccica, nel villaggio. L’intenzione di fare bene, gli spazi immacolati, i visi delle persone che ci lavorano. Tutto è luminoso, stagliato verso una direzione precisa: l’amore.
L’organizzazione perfetta del posto non è mai asettica. È sempre morbida, vibrante, coinvolgente.
L’orto, le mucche, la cucina, i container con le scorte di cibo, l’asilo ricco di giochi ed esercizi stimolanti. D’altronde tutto non può che funzionare, quando gli ingranaggi sono quelli del cuore.
Ogni bambino ha il suo carattere, i dettagli che lo rendono unico e che si fa in fretta a individuare. La timidezza, la spavalderia, la serietà, la tenerezza. Tutte queste attitudini se ne stanno morbide e profumate dentro i grembiulini.
La maestra è una di loro. Un’entusiasta, instancabile guida. Con loro balla, disegna, gioca, e li indirizza verso il crescere. Il lavoro più bello del mondo.
Per conquistare la fiducia dei grandi ci vuole più tempo.
Niente trucchetti. Niente false adulazioni, solo una reale ricerca di contatto. Mi sono messa con loro a selezionare le fotografie che avevo fatto, perché volevo che fossero loro a dirmi dove si piacevano, e perché. Ha funzionato.
Dopo pranzo, avevo un piccolo rito. Passare un’ora con due donne che, all’ombra di un grande albero, facevano un lavoro semplice ma religioso. In un grande piatto smaltato pieno di lenticchie, dovevano individuare le minuscole pietre tra i legumi, e buttarle via. Gesti lenti e attenti, in un tempo immobile. Mi sentivo in una parentesi di pace ed essenzialità, come se ci fosse più senso in quei gesti elementari che in tante cose pretenziose della mia vita.
E questo, è il mondo dentro il Villaggio.
L’Associazione, però, fa del bene anche fuori, supportando i bambini esterni.
Le loro storie mi hanno sovrastata. Inferni, trascuratezze, abbandoni indicibili e grande povertà.
Il mio compito era fotografare i piccoli per le adozioni a distanza. Ero partita dall’Italia con l’intenzione di fare un lavoro artistico, ma mi sono ritrovata a fare un lavoro profondamente umano. I bambini, con le loro storie, i loro visi, i piedini che non toccavano terra mentre sedevano sulla sedia, i vestiti sgualciti, gli abiti eleganti improvvisati per l’occasione, gli occhi giganteschi, il non saper come stare.
Tutto questo si è mangiato la mia velleità di fare un lavoro creativo. Ero solo una persona, davanti a queste personcine. Spesso i miei occhi lucidi sfocavano le immagini di fronte a me. Non era la macchina fotografica. Ero io a non reggere la situazione.
Spero di aver fatto comunque un buon lavoro, e che ai genitori adottivi arriverà la potenza, la disperazione, la bellezza e il bisogno di questi piccoli protagonisti di vite complicate.
La commozione più grande, però, è stata per la delegazione di ragazzi non vedenti che sono venuti a ringraziare Francesco per l’opportunità della scuola aperta per loro ad Adwa. Sono arrivati in fila, e si sono sistemati in piedi, davanti a noi, con l’autorevolezza e la composizione di un coro greco. Tra le mani, le pagelle con voti stellari. E il discorso del portavoce, pronunciato con voce tremante ma ferma, è stato un pezzo di puro, perfetto, incantevole teatro. Teatro di vita vera.
Le lacrime che cadevano dai nostri occhi avrebbero dovuto far aprire i loro alla luce. Sarebbe stato un miracolo, lo so, e per un attimo ho pensato che potesse accadere.
E a proposito di miracolo, anche l’escursione a Maga’Uma ha avuto qualcosa di mistico. La strada interrotta a causa dell’alluvione ci ha obbligato ad arrivare a piedi in un villaggio davvero minuscolo ed isolato. Ma credo sia stato giusto così. Arrivare passo dopo passo, nel silenzio, accompagnati dalle proprie riflessioni, con una fatica bella e una natura selvaggia intorno, è il modo migliore per raggiungere un posto. Anche un posto qualsiasi. Figuriamoci Maga’Uma, che è un luogo senza compromessi, senza luce e senza acqua, in cui Francesco e la sua famiglia hanno deciso di costruire un Health Center. La strada crollata ha fermato i lavori, ma la volontà è più forte di qualsiasi alluvione.
Anche qui, l’accoglienza è stata indescrivibile. In una canonica di pietra, tutti si sono prodigati a cucinare per noi una cena molto originale: caprone benedetto e miele paradisiaco delle montagne. Abbiamo riso dei sapori forti, ci siamo abbandonati alla luce della luna piena che disegnava i profili delle montagne deserte, ci siamo scaldati al fuoco.
Avevamo poco lassù, ma avevamo tutto.
Eravamo in armonia con l’altezza e la grandezza della natura.
La mattina dopo siamo stati svegliati da canti e musiche. Gli abitanti del villaggio danzavano saltellando con picconi e pale prima di ricominciare i lavori della strada.
La strada e l’Health Center sono la loro occasione per una vita meno ardua.
Tanti ringraziamenti per Francesco, i discorsi degli anziani con i loro scialli bianchi e le facce intense, le danze ritmiche delle donne, i tamburi dal suono antico e cristallino.
Il cielo era così azzurro che faceva male agli occhi
L’atmosfera era così densa di emozioni che faceva male al cuore.
Siamo scesi quasi correndo, pieni di cibo e di ricchezza immateriale. Qualche silenzio, in auto, sulla via del ritorno, per tenerci dentro i dettagli di una giornata irripetibile.
Uscendo dal cancello di luce verde del Villaggio dei Bambini per tornare in Italia, ho pianto.
Pianto di dispiacere perché non avrei più sentito le voci dei piccoli che correvano a fare colazione mentre io mi svegliavo dietro le tende blu della mia camera inondata di sole.
Ma ho pianto soprattutto di gratitudine e pienezza, per aver preso molto di più di quel che ho dato.
Ho preso, in ogni momento, un affetto senza confini.
Non posso impacchettarlo, ma vorrei regalarne un po’ a chi leggerà queste parole.
E sul biglietto di questo pacchetto invisibile, c’è scritto grazie.
Grazie a Francesco, Nevia e alla loro famiglia, che per una settimana, hanno dato alla mia vita un senso scintillante.
Simona *
* Simona Angioni, Direttrice Creativa e Autrice