Storia di Melat, così, semplicemente, come tutto è accaduto…..
Quando ad Adwa il Villaggio dei bambini accoglieva e ospitava i primi orfani, in uno degli articoli apparsi su varie riviste e giornali, Francesco raccontava così alla giornalista l’incontro con Melat.
Era il 17 giugno del 2001.
Quella mattina l’ho vista, seduta per terra, coperta di mosche, con addosso un golfino rosa tutto strappato e un paio di pantaloncini di una tuta color azzurro, bagnata di pipì e incrostata di fango. In mano un pezzo di pane. Mi guardava fisso, io facevo altrettanto. Le donne del vicolo dissero che non era di nessuno. La mamma, una prostituta al seguito dei soldati l’aveva lasciata lì. Camminava a quattro zampe e la sera si infilava in qualche anfratto per ripararsi. Qualcuno le dava un pezzo di pane ogni tanto.
Non ho avuto dubbi: l’ho presa in braccio e l’ho portata via con me. Non stava in piedi, non parlava. La polizia me la ha affidata.
E’ stata con me un mese, poi sono dovuto rientrare in Italia e l’ho affidata a Zafu, in attesa del mio ritorno. E un giorno, a Roma, una telefonata: la madre di Melat era improvvisamente tornata e aveva rapito la bambina, facendo perdere le proprie tracce. Al mio rientro ad Adwa è cominciata la ricerca, incessante, per 2 lunghissimi anni, di Melat e della sua mamma. Ho chiesto, ho domandato. Per due anni, senza stancarmi e senza perdere la speranza, ho continuato a chiedere, a tutti coloro che incontravo, di Melat: un nome piuttosto comune, una bambina come tante, una madre della quale non conoscevo neppure il nome. Indizi talmente vaghi da non poter far sperare in alcuna risposta.
Poi, un giorno, una donna mi dice che la mamma di Melat, che lei aveva conosciuto, le aveva parlato di un’anziana donna cieca che viveva in una capanna vicino ad Adigrat, alla quale aveva lasciato la bambina per continuare a seguire i soldati. Ma allora perché, mi sono chiesto, l’ha rapita, per poi abbandonarla di nuovo?
Era sera e quella notte non sono riuscito a dormire. Pensavo a Melat, alla possibilità, forse, di ritrovarla. Non consideravo affatto quanto fosse assurda quella ricerca, in un paese dove la popolazione rurale vive in capanne, i bambini sono più della metà della popolazione, i ciechi numerosissimi. Mi bastava quello spiraglio, quella speranza, e a quella mi aggrappavo.
L’indomani (era il 17 ottobre 2003) siamo partiti quando era ancora buio, Tesfu, un ex guerrigliero divenuto amico fraterno, e Zafu, come interprete. Non volevo perdere tempo. In base alle sommarie e incerte indicazioni fornite, abbiamo cominciato la ricerca, chiedendo a tutti di una donna cieca che viveva in una capanna, insieme a una bambina.
Abbiamo girato a lungo, percorrendo sentieri impossibili e arrampicandoci lungo numerosi dirupi, in base a informazioni altrettanto vaghe quanto gli indizi che fornivamo, che ci indirizzavano ora da una parte ora dall’altra. Poi, dopo ore di inutile ricerca, ci appare una capanna isolata, semi crollata. Forse è quella, penso. La raggiungiamo, ma è vuota, nessuno nei dintorni a cui chiedere. Un pastore appare improvvisamente, sorgendo dal nulla. In Etiopia, anche nel luogo più desolato, dove pensi di essere lontano da tutti, le persone si materializzano, quasi spuntando dalla terra. Il pastore, incuriosito, si avvicina e ci chiede. Alla nostra risposta racconta che sì, lì viveva un’anziana cieca con una bambina, ma la donna era stata sbranata, mesi prima, da cani randagi. E la bambina, gli abbiamo chiesto? La bambina era stata portata via da un pastore. Ci ha indicato la sua capanna, che si intravvedeva appena, al culmine di una collina non troppo lontana.
Ho preceduto gli altri, non riuscivo a regolare il mio passo. Correvo, correvo, fino a quando non sono giunto sul piccolo spiazzo davanti alla capanna.
Il respiro si arresta, malgrado sia affannato per la lunga corsa in salita.
Uno sguardo. Lei era lì, davanti a me. La lunga ricerca, durata più di due anni, si era conclusa.”
Questa la lettera che Francesco scrive ai suoi genitori, il giorno successivo, 18 ottobre 2003, alle 8 di sera :
Melat è’ di nuovo qui.
In questi due anni mille volte mi ero domandato dove fosse; mille volte avevo guardato, la sera prima di addormentarmi e la mattina appena sveglio, quella foto che ho attaccato accanto al letto, il primo giorno che lei è arrivata qui.
Mille volte ho cercato di capire il senso di quella cosa apparentemente incomprensibile, mille volte mi sono chiesto perché tutto questo era successo, mille volte ho pregato che mi riapparisse magicamente davanti, mille volte ho scrutato decine di volti sconosciuti, nella speranza di rivedere quegli occhietti che conoscevo bene.
Poi improvvisamente tutto questo ha avuto una risposta. Invece della foto e del ricordo, mi sono trovato a stringerla di nuovo tra le braccia, a poterla baciare e abbracciare, a vederla giocare con i pennarelli e con i palloncini, a vedermela addormentarsi in braccio, esattamente come il primo giorno che l’ho vista.
La storia di Melat la conoscete bene: abbandonata, trovata, rapita, di nuovo abbandonata, ceduta, come un oggetto che non serve più. Tutto nel breve volgere dei suoi primi tre anni di vita!
Pensavo di non riuscire a portarla via, mi sono trovato lì in mezzo alle montagne e, mentre Tesfu trattava con il pastore, Zafu mi ripeteva “niente da fare Francesco, il pastore non vuole lasciarla, dice che ormai è sua e non la mollerà mai, gli serve per portare al pascolo le pecore”.
Non sapevo cosa fare, mi sono allontanato un attimo, davanti solo il nulla, intorno solo il vuoto.
Mi sono seduto da una parte e ho guardato in alto verso il cielo azzurro mentre mi è sorto spontaneo un grido di disperazione: “Ti prego, non lasciare che rimanga qui. Ti prego, fammela portare via”.
Poi sento dei passi: è Zafu che si avvicina. E’ finita, penso, mi alzo pensando che potrei fare un ultimo gesto disperato, prenderla e scappare. Zafu parla, ma non la sento, lei mi scuote due, tre volte. ”Francesco, mi hai sentito? Ha detto che va bene. Non so perché ma ha cambiato idea. Ha detto che ce la dà, che possiamo portarla via. Lui non la vuole più”. Mi sono girato, sono corso a prenderla in braccio e ho cominciato a correre, per scappare il più lontano possibile, temendo che ci ripensasse. Quando l’ho presa in braccio, mi è venuto spontaneo volgere gli occhi in alto e gridare un grazie, verso quel cielo azzurro che fino a un attimo prima mi appariva chiuso e duro e che ora sembrava sorridermi, come se mi facesse l’occhietto. Poi, di corsa giù per il sentiero, correndo, senza fermarmi, fino alla macchina.
….. Oggi era seduta accanto a me, rideva, giocava, si nascondeva, mi tendeva le braccia perché la abbracciassi, mi dava baci e mi offriva i suoi biscottini, mi guardava negli occhi, mentre io le parlavo in una lingua che lei non capiva, e le ripetevo “E’ finita piccola mia, questa volta mai più mosche, mai più fame, mai più dolori. Basta con gli abbandoni. Stavolta iniziamo una vita nuova vera e la iniziamo insieme”.
Non mi capiva, ma mi guardava come se capisse e mi si stringeva sempre di più.
L’ho portata stasera alle sette a una delle nostra “mamme“ che se ne prenderà cura.
Forse il gesto di amore più grosso nei suoi confronti è stato proprio quello: saperla lasciare andare, essere capace di affidarla alla nuova mamma, mentre lei mi tendeva le braccia perché voleva tornare da me, vedere spegnersi il suo sorriso, rivedere la stessa faccina triste che le avevo visto ieri. Stavo sbagliando?
Eppure tornerà presto a sorridere, mi sono detto.
E questo è avvenuto subito, perchè la mamma a cui l’ho affidata è davvero brava. Difatti, quando sono tornato a trovarla, un paio di ore più tardi, l’ho trovata di nuovo sorridente, che mi tendeva le braccine, ma che abbracciava sorridente anche la mamma, con la quale cominciava a scambiare qualche parola e tante effusioni.
Mentre tornavo a casa, e mi sentivo così pieno di gioia, mi sono venute in mente queste parole che, una volta, ho letto da qualche parte: “non c’è vero amore senza distacco “. Non ne avevo mai colto il significato vero, profondo: amare, ossia volere il bene dell’altro, è sempre un po’ perderlo, accettare di perderlo, non trattenerlo per sé. Adesso lo avevo vissuto.
Sono passati 16 anni da quella lettera. Melat ha compiuto 19 anni. E’ all’università.