Carissimi amici,
cerco di mantenere la promessa di inviarvi almeno due volte all’anno una nostra comunicazione, per aggiornarvi sulla situazione e sulle novità del “nostro” Villaggio.
Spero che tutti abbiate avuto il tempo di visitare il nuovo sito, dove sono state inserite moltissime nuove foto e filmati, che permettono di vedere anche le novità delle quali ora vi parlo.
Nell’ultima newsletter di settembre, vi avevo parlato delle problematiche legate alla mensa, al suo funzionamento e organizzazione e quelle derivanti dall’allaccio del nuovo generatore. Posso confermarvi che la mensa, aperta da oltre un anno, funziona regolarmente e che anche le donne che si occupano della cucina e della preparazione dei pasti hanno finalmente capito come organizzarsi.
Anche lo spostamento, sempre all’interno del Villaggio, del Centro di Emergenza, è stato completato. La struttura è stata razionalizzata, con uno spazio che funge da ambulatorio per le visite di persone esterne, la creazione di quattro nuovi posti letto, riservati ai bimbi che vivono nel Villaggio, per poterli curare meglio quando hanno qualche problema, affidando tutte le loro cure e terapie alle nostre tre infermiere professionali che si occupano a tempo pieno del Centro.
Tutta l’organizzazione del Villaggio è stata migliorata. Difatti, approfittando del fatto che la zona circostante rientra in un programma di urbanizzazione, con le nuove costruzioni ormai arrivate a lambire il nostro Villaggio, abbiamo chiesto alle persone del nostro staff e alle infermiere di trasferirsi in queste case, che sono situate nel raggio di duecento metri. Questa scelta, che per loro è anche un benefit – si tratta di case con servizi igienici, luce ed acqua e che i tempi per raggiungere il Villaggio sono praticamente azzerati – ci fornisce il grandissimo vantaggio di poter contare su tutti, nelle eventuali situazioni di emergenza, anche durante la notte. Basta difatti mandare uno dei nostri guardiani ad avvisare una persona che questa, nel giro di cinque minuti, è già arrivata al Villaggio.
Come novità, dobbiamo segnalare l’emanazione, da parte del governo, di alcune nuove linee guida, comunicate proprio nei primi mesi del 2011, dirette a tutte le organizzazioni che si occupano di assistenza ai bambini. Si tratta di linee guida che recepiscono le indicazioni del UNCRC (United Nations Convention on the Rights of the Child). Tali indicazioni – che riguardano in linea generale il problema della crescita, salute, educazione e supporto dei bambini, specialmente quelli in condizioni di particolare vulnerabilità (bambini di strada, orfani, abbandonati, disabili, lavoro minorile, abusi sessuali, Hiv, ecc.) – hanno tra le altre indicazioni, – e per quanto ci riguarda in particolare – il fine di favorire il ricongiungimento e la riunificazione familiari, problema particolarmente sentito in Etiopia. Per famiglie si intendono non solo i genitori od il genitore vivente, ma anche consanguinei. Nel caso non ne esistano, ogni organizzazione dovrà valutare la possibilità e l’utilità dell’inserimento in famiglie allargate. Il presupposto è che le condizioni delle famiglie lo consentano, fornendo quel minimo di affidabilità, condizioni igieniche, condivisione delle finalità e cura dei bambini, che rendano il ricongiungimento un fattore positivo, come nelle intenzioni, e non una semplice riconsegna dei bambini alle famiglie di origine o ai parenti. Questo programma deve essere introdotto gradualmente, con attenzione e prudenza. Tale posizione dell’amministrazione – che è da noi condivisa, sia per le finalità e modalità, sia per la validità confermata a livello internazionale – suggerisce una prima sperimentazione, per il solo periodo delle vacanze scolastiche. Abbiamo quindi provveduto, previa verifica e contatto con le famiglie, a trasferire alcuni dei nostri bambini presso le famiglie di origine o di consanguinei che, durante la permanenza del bambino presso di loro, sono debitamente sostenute finanziariamente. Con tale permanenza si contribuirà quindi a far prendere contatto ai bambini con la realtà nella quale dovranno vivere che, altrimenti, potrebbe risultare loro estranea e che certamente, sotto molti punti di vista, è diversa dal contesto del Villaggio. È una prima esperienza che ci sembra assai positiva anche in fase prospettica. Siamo ansiosi di verificare quali saranno i racconti dei bambini al loro rientro nel Villaggio a Settembre, per l’inizio del nuovo anno scolastico. Non mancheremo di farvi conoscerei loro racconti e le loro sensazioni su questa esperienza, per loro del tutto nuova.
Per quanto riguarda la situazione in generale, possiamo dire che è decisamente migliorata quella riguardante l’acqua e l’energia elettrica. Non è invece migliorata sotto altri aspetti, primi fra tutti l’inflazione, la scarsità di alcuni materiali e, ultimamente, anche di beni alimentari.
Il problema dell’inflazione è veramente pesante. Ormai è un rincorrersi di aumenti dei salari dei dipendenti pubblici, l’ultimo è stato del 45%, cui fa fronte un immediato aumento dei prezzi di tutti i beni di prima necessità, con i commercianti che si consultano l’un l’altro per adeguare i prezzi a quello più elevato. Alcuni preferiscono conservare le merci in magazzino, piuttosto che venderle, contando sui continui aumenti. Con il risultato che molti beni non si trovano, anche se sono state emanate disposizioni che vietano di sottrarre la merce alla vendita, ovvero di aumentare i prezzi.
Tra i beni mancanti, vi sono beni alimentari di prima necessità: farina, zucchero, olio, ecc. È possibile acquistarli al prezzo fissato, presso gli uffici statali che si occupano della distribuzione, ma occorre fare una fila di alcune ore, per poter acquistare un litro di olio di semi, ad un prezzo che è praticamente pari a quello dell’olio di oliva in un qualsiasi supermercato italiano. Tali prezzi si confrontano con salari che, tradotti in euro, corrispondono a 50/60 euro mensili. Significa che un litro di olio ha un prezzo che equivale al 7/8% del salario mensile di un operaio!
Tanto per avere un’idea, il cambio del birr (la moneta locale) con l’euro, che due anni fa era intorno a 10, lo scorso anno è salito a 18 ed ora è già a 24.
Per il Villaggio, abbiamo fatto la scelta di acquistare alcuni alimenti da un rivenditore di Addis Abeba, che importa anche dall’Italia. Questo ci permette di fare delle scorte, fronteggiare le emergenze e poter contare su una qualità costante.
La situazione generale non è molto confortante però, per quanto riguarda il nostro Villaggio, vi sono anche delle notizie decisamente positive, delle quali desidero rendervi partecipi.
Nella newsletter di settembre 2007 ho scritto che speravo di potervi raccontare la storia di Trasina.
Da allora sono passati circa quattro anni. Quattro lunghi anni di attesa e di speranza, di possibili soluzioni, che di tanto in tanto sembravano proporsi, per poi svanire. Però non abbiamo mai abbandonato la speranza e, finalmente, il momento tanto atteso è arrivato. Ecco la storia.
Verso la metà del 2007 si presentò al nostro cancello una donna con in braccio un bimbo gravemente denutrito e, accoccolata ai suoi piedi, una bimba. Ci raccontò, con un lungo e sconclusionato discorso, la sua storia di donna sola, con un gran numero di figli di padri diversi, chiedendoci di fare qualcosa per il bimbo che aveva in braccio. Capimmo che la donna non era sana di mente – come avremmo avuto modo di constatare ben presto – cosa questa che giustificava anche l’elevato numero di figli di padri diversi. Considerata la grave denutrizione del bimbo che aveva in braccio, decidemmo di ammetterla subito nel nostro Centro di Emergenza. Insieme con lei, anche la bimba che, per tutto il tempo, era rimasta accucciata ai piedi della madre. Al momento di entrare, capimmo il perché del rimanere seduta della piccola bimba. Non riusciva a camminare. Si spostava con le mani e i piedi, ripiegata su se stessa, ad angolo retto, come un piccolo animaletto a quattro zampe. Avanzava alternando un braccino e una gambina, lievemente ripiegata, quel tanto che le consentiva di trovare il giusto equilibrio tra altezza da terra delle braccia e delle gambe. Doveva necessariamente tenere il viso e lo sguardo diretti verso terra e, solo girando la testina lateralmente, riusciva a guardare un poco più in alto. Ma se doveva guardarti in volto, doveva fermarsi, accucciarsi a terra e, solo allora riusciva a rivolgere lo sguardo verso l’alto. Altrimenti poteva solo vedere il terreno davanti alle sue manine. L’unico orizzonte erano i due metri di terreno davanti al suo volto, che si trovava sempre a pochi centimetri da terra. Solo provando personalmente a mettersi nella stessa posizione si può capire tutto il disagio e l’estrema difficoltà di muoversi, ma anche il dramma di quello sguardo sempre rivolto a terra. Il suo incedere la rendeva simile a un ragno perché, utilizzando braccia e gambe, riusciva a muoversi anche in modo trasversale. Un piccolo ragno, un ragnetto, fatto di cuore e di carne. Una bimba ragno. Vedere una bimba così piccola e gracile, aveva sei o sette anni, che riusciva a muoversi solo in quel modo, ci ha veramente stretto il cuore. Quando dicemmo loro di entrare, ci colpì anche il modo aggressivo e violento con il quale la madre si rivolse alla bimba per ingiungerle di muoversi. La prendemmo in braccio e accompagnammo lei, la madre e il fratellino al Centro di Emergenza, dove furono subito accolti, lavati, nutriti ed hanno avuto un letto, dove riposare. Però, ogni volta che la piccola doveva spostarsi, si muoveva sempre con quel suo incedere straziante, fatto di mani e piedi che la facevano avanzare con quella assurda andatura. Perché camminava in quel modo? La madre si rivolgeva a lei con urla e modi aggressivi, ai quali univa sempre qualche violento colpo, dato con le mani o con i piedi, che si abbatteva su quel corpicino che si rannicchiava a terra, cercando di sottrarsi a quella assurda ed inspiegabile aggressione. Evidentemente la madre, a causa della sua pazzia, che manifestava con sempre maggiore evidenza, nutriva una sorta di odio aggressivo verso la bimba, che picchiava ogni volta che le rivolgeva la parola. Il giorno seguente superò ogni limite picchiandola a sangue. Grazie all’immediato intervento dell’ufficio affari sociali, la donna fu convinta ad affidarci la bimba, che fu inserita stabilmente nel nostro Villaggio.
La piccola si chiamava Tras. Nel Villaggio già viveva un’altra bimba con il medesimo nome, maggiore di età. Così decidemmo di chiamare la nuova arrivata con il diminutivo di Trasina.
Cercammo subito di capire perchè camminasse in quel modo.
La piccola, interrogata, restava però muta e ci guardava con occhi smarriti. Pensammo che fosse sorda ma, ad alcune domande, rispondeva affermativamente o negativamente, con un piccolo cenno della testa. Quindi sentiva. Ma non rispondeva. Per tentare di capire, provammo a metterla in piedi, sostenuta ed aiutata, esortandola a camminare. Ci accorgemmo così che non riusciva a poggiare per terra uno dei piedini, appoggiava solo la punta, tenendolo anche rivolto verso l’interno. L’unica cosa che potevamo fare per evitarle quel terribile modo di camminare, era tenerla in braccio.
Comunque, dopo pochi giorni, Trasina, stando insieme agli altri bimbi del Villaggio, cominciò ad avere uno sguardo meno assente e più partecipe. Ma restava quasi sempre muta. Gli altri bimbi stavano seduti a terra insieme con lei ma, ad ogni momento, con la inarrestabile vivacità dei bambini, si alzavano, si rincorrevano, giocavano, davanti a lei che non poteva alzarsi. E li guardava.
Mi trovavo insieme al gruppo di bambini, coinvolto nei loro giochi quando, girandomi, vidi Trasina seduta a terra che in silenzio, il visetto rivolto verso l’alto, ci osservava. Incontrai il suo sguardo, le sorrisi e le tesi le braccia, invitandola, con un gesto, a venirmi in braccio. Fu il suo primo sorriso. Gli occhi si illuminarono, fece un lieve cenno di assenso con la testina tendendomi le sue piccole braccia. Era il primo segno di vera interazione. Giorno dopo giorno, Trasina cominciò a partecipare all’attività degli altri bimbi, per quello che le permetteva la sua situazione fisica ed il fatto di dover comunque stare in braccio a qualcuno. Ma non era più confinata a terra.
Bisognava trovare un paio di stampelle della sua misura, insegnarle ad usarle e renderla più indipendente. Purtroppo ad Adwa, il concetto di stampella è collegato ad un ramo che si utilizza, appoggiandolo sotto l’ascella, con qualche straccio sull’estremità per rendere meno difficile e disagevole l’appoggio. I più fortunati dispongono di una gruccia di legno, residuo della presenza italiana negli anni trenta.
Acquistammo in Italia le stampelle da bambino e ne portammo alcune paia ad Adwa. Così, con molta pazienza di tutti e delle nostre infermiere, fu possibile far comprendere a Trasina come usarle per spostarsi autonomamente. Ci volle del tempo prima che riuscisse a familiarizzare con questi attrezzi, ma alla fine i risultati arrivarono. In occasione di un mio arrivo ad Adwa, dopo l’aggressione iniziale dei saluti e baci di tutti, venni preso per mano da alcuni bambini che d’un tratto si fermarono e fecero silenzio, aprendo il loro gruppo, per farmi vedere Trasina, in fondo a questo piccolo corridoio che avevano formato. Lei mi veniva incontro, con il suo avanzare incerto e faticoso, ma con un gran sorriso sul visetto minuto e con gli occhi che dicevano la sua gioia, la gioia di mostrare come aveva imparato a muoversi da sola, con l’aiuto delle sue piccole stampelle. Quando mi raggiunse tutti i bimbi gridarono di gioia.
Da quel momento fu un susseguirsi di ulteriori piccoli ma continui miglioramenti. Trasina imparò a muoversi con le due stampelle sempre più speditamente, poi cominciò ad accennare qualche passo più veloce, poi imparò a correre, per quanto le consentiva il piedino, sempre più piegato verso l’interno. Cominciò anche a lasciare una delle due stampelle ed a muoversi abbastanza speditamente con una sola. Infine, dopo diversi tentativi, le ha abbandonate entrambe muovendosi autonomamente, partecipando sempre di più alle attività ed ai giochi degli altri bambini, correndo con quella sua andatura sghemba, dietro agli altri.
Si, perché il piedino torto è piegato verso l’interno del corpo per più di novanta gradi, leggermente rivolto all’indietro e poggia solo la punta. Si muove con il busto piegato in avanti di quarantacinque gradi, il bacino spinto indietro e di lato, strisciando a terra il piccolo piede. Ma si muove da sola.
Questa è solo la prima parte della storia. Una parte comunque bella, perché per Trasina è cambiata radicalmente l’esistenza. Da bimba costretta a camminare sulle mani e piedi, a non vedere altro che il terreno davanti a lei, ora riesce a stare in posizione eretta, a muoversi con una certa disinvoltura ed a partecipare alle attività comuni, andando a scuola con tutti gli altri bambini, camminando con le proprie gambe. Però, malgrado questi tangibili risultati, vedere Trasina muoversi in quel modo scomposto, trascinato, sghembo, zoppicante, vedere quel piedino rivolto sempre più all’indietro – peggiorava con la crescita – continuava a darci una grande pena.
Perché Trasina aveva quella gambina più corta? Perché il piedino rivolto all’interno? Qual’era il motivo di tutto questo? Si poteva fare qualcosa?
La prima supposizione fu di pensare che la madre, in un accesso di follia, l’avesse picchiata così violentemente, in tenera età, da averle rotto il femore o provocato qualche danno all’anca.
Fu Andrea, il primo pediatra che venne ad aiutarci ad Adwa a dirci, dopo averla visitata, che a suo avviso si trattava di un tendine corto, che non permetteva l’estensione della gamba. Però occorrevano dei riscontri, almeno una lastra e, se confermata questa ipotesi di diagnosi, si poteva ricorrere a un intervento chirurgico specialistico. Nulla di più semplice, in quel di Adwa!
L’ospedale di Adwa disponeva di un apparecchio per le lastre, dono di un governo europeo ma, a causa di una rottura di un componente, giaceva inutilizzato in una stanza dell’ospedale. Dopo molti mesi fu riparato e potemmo così fare una lastra che inviammo subito in Italia. Fu esaminata da un ortopedico il quale confermò la diagnosi di Andrea, aggiungendo che vi era anche un piede piatto ed alcune deformità ossee. Si disse pronto a operarla, per eliminare il problema. Questo però, doveva avvenire in Italia, in situazione di massima igiene e sicurezza, essendo altissimo, nel caso di interventi sulle ossa, il rischio di infezioni gravissime e pericolose. Portare Trasina in Italia si rivelò una impresa impossibile. Oltre a tutte le problematiche burocratiche, alcune di non facile soluzione, occorreva avere il permesso della madre per richiedere il passaporto e farla uscire dall’Etiopia. Il suo ripetuto rifiuto e tutte le ulteriori difficoltà, legate sia all’uscita dall’Etiopia che alla permanenza in Italia, ci fecero capire che questa strada non si poteva concretamente percorrere.
Qualche mese dopo, sapemmo di un chirurgo italiano che, insieme ad altri, veniva periodicamente in Etiopia, in una struttura sanitaria gestita da una associazione locale, relativamente vicina al nostro Villaggio. Così, pieni di speranza, al suo arrivo in Etiopia, mandammo subito Trasina, accompagnata da una persona del nostro staff, contando su un ricovero, qualche approfondimento, una esatta diagnosi e la programmazione dell’intervento. La delusione fu totale perché, dopo due giorni di attesa, fu visitata velocemente, senza ottenere alcun approfondimento della situazione, informandoci solo che l’arrivo in Etiopia di un chirurgo ortopedico non era al momento prevista.
In epoca successiva, all’ospedale di Adwa giunse un medico straniero, specializzato in chirurgia ortopedica. Fu molto disponibile, visitò Trasina e disse a Francesco e Nevia che avrebbe potuto eseguire un certo tipo di intervento per il miglioramento della situazione. Non avrebbe risolto interamente il problema, ma avrebbe riportato Trasina a una condizione di quasi normalità. Aveva già diversi altri interventi programmati, per cui stabilì che l’avrebbe operata la settimana seguente. Finalmente ce l’abbiamo fatta, pensammo tutti. Ma non era così, dopo due o tre giorni, ci telefonò dicendo che doveva rientrare con urgenza nel suo paese di origine alla fine della settimana, per cui non poteva più effettuare l’intervento. Forse sarebbe tornato dopo circa sei mesi, ma non era sicuro.
E adesso come facciamo, ci siamo detti, dopo che anche questa terza speranza era svanita?
Non si vedeva una via d’uscita.
Tra le tante comunicazioni che mi giungono in studio, da parte delle innumerevoli associazioni di beneficenza, alle quali do sempre uno sguardo per trarne eventuali idee di intervento, mi soffermai su una che segnalava una sua presenza in Etiopia, proprio in una località vicina al Villaggio, dove nel locale ospedale, venivano effettuati interventi su bambini con problemi analoghi a quello di Trasina. Questa volta ci siamo, mi dissi. Mandai subito una mail all’associazione. Dopo qualche giorno, non avendo ricevuto risposta, ne invia un’altra. Mi giunse l’atteso riscontro con il quale mi si forniva il nome del rappresentante locale dell’associazione, da contattare per organizzare una visita e l’intervento. Comunicai subito il telefono a Francesco e Nevia che, un paio di giorni dopo, mi chiamarono sconsolati, dicendo che il nominativo contattato non sapeva nulla di interventi ortopedici, segnalando però che potevamo rivolgerci sia all’ospedale della sua cittadina ma, più semplicemente, all’ospedale di Adwa, senza dover affrontare un trasferimento.
Se l’intervento si fosse potuto fare ad Adwa, non avremmo certo atteso di sentircelo dire da chi, invece, avrebbe dovuto fornirci l’aiuto chirurgico pubblicizzato sui depliants.
Le avevamo provate tutte e sembrava che non ci fosse proprio più nulla da fare. Cos’altro tentare?
Lo scorso mese di Marzo, dopo un soggiorno ad Adwa, ho incontrato ad Addis Abeba, casualmente, una persona con la quale ci conosciamo da anni e che si occupa di aiutare i moltissimi poveri della città. Abbiamo parlato di tutte le problematiche comuni, del modo di affrontarle, delle difficoltà legate a situazioni contingenti e culturali ma, soprattutto, all’ignoranza e alla estrema povertà. Ci siamo scambiati le comuni esperienze e modi di aiuto. Al momento di salutarci ho chiesto, con poche speranze ma per non lasciare nulla d’intentato, se aveva notizia di qualche ospedale o struttura, in grado di effettuare un intervento ortopedico ad una nostra bambina. Certo mi ha risposto, proprio recentemente ho mandato alcuni dei miei poveri per interventi analoghi. È una struttura che si trova a sud di Addis Abeba. Domani ti faccio avere l’indirizzo, il telefono ed una persona di riferimento. Arrivato in Italia ho trovato la mail con quanto promesso ed ho telefonato subito a Francesco e Nevia, che si è attivata immediatamente. Ha parlato con un medico – era presente proprio un ortopedico – e dopo due giorni è stato possibile prenotare il volo interno da Axum e far partire Trasina per Addis, accompagnata da una delle nostre donne. Ad Addis avevamo organizzato il trasferimento in auto fino alla località dove si trova la struttura sanitaria, cosa che ha richiesto diverse ore di guida. Dopo altri due giorni, Trasina è stata finalmente operata. La situazione si è rivelata molto più complessa di quanto rilevabile solo dalla visita esterna. In realtà, come ci ha poi scritto il medico, ha dovuto effettuare un intervento complesso per risolvere la situazione di “piede equino”, con allungamento del muscolo, correzione della deformità del piede e miglioramento delle problematiche dell’anca, che presentava una rotazione. La situazione era così complicata che ci ha preannunciato l’eventualità di un futuro ulteriore intervento poiché, con la crescita, le deformità possono recidivare. Vedremo.
Trasina è rimasta nella struttura per diverse settimane, perché la gamba è stata ingessata. Poi c’è stato un periodo di rieducazione e fisioterapia, che deve essere proseguita per lungo tempo. Infine è stata dimessa ed è tornata al Villaggio, tra la gioia e la commozione di tutti.
Così, dopo “solo” quattro anni di speranze e delusioni, di attese e di ricerche il “sogno” che nutrivamo per Trasina, si è avverato. È stata una grande gioia che ho voluto condividere con voi, nel momento in cui questo è avvenuto. Come è stato possibile? Con l’impegno di tutti noi e di tutti voi, cari amici. Soprattutto con il sostegno che molti ci rivolgono con le loro lettere, le loro parole, la loro partecipazione e condivisione di quanto avviene e di quel poco che riusciamo a raccontare. Il sapere che vi sono altri che insieme a noi partecipano, gioiscono, condividono le difficoltà è un “carburante” che ci consente di continuare a sperare ed a tentare, anche quando, come per Trasina, le strade sembrano sempre sbarrate.
Questa gioia è però stemperata dalla pena legata alla evoluzione della situazione psicologica di Trasina. All’inizio, come detto, era sempre molto silenziosa e parlava assai di rado, solo se molto sollecitata, preferendo rispondere a monosillabi o con cenni del capo. Ma l’inserimento nella vita del Villaggio, il contatto con gli altri bimbi, la progressiva crescita della sua autonomia, l’hanno portata ad essere molto più comunicativa e ben inserita nella piccola comunità. È sempre rimasta molto riservata e di poche parole, ma molto serena e sempre pronta a sorridere, ogni volta che incrociava lo sguardo di qualcuno.
Poi, improvvisamente, qualcosa è cambiato poco tempo prima dell’intervento. Trasina ha cominciato a manifestare delle assenze e un certo distacco dalla realtà, come se vivesse in un mondo parallelo a quello reale. Durante il suo ricovero, il medico che l’ha operata ci ha interpellati per questo suo comportamento così assente e non collaborativo, trovando una possibile giustificazione quando gli abbiamo accennato alla pazzia della madre. Il suo atteggiamento non è ostile ma si manifesta in un sostanziale distacco e assenza, ed in una progressiva abulia. E questo rende difficile anche il farle accettare e svolgere gli esercizi di rieducazione, che deve compiere, per poter dare un concreto e significativo seguito all’intervento operatorio. Probabilmente, la invieremo nuovamente, per qualche tempo nella struttura dove è stata operata, per essere certi che svolga, sotto la guida di esperti, tutti gli esercizi di rieducazione.
Ereditarietà della follia della madre? È molto probabile. Traumi per la sua infanzia e crescita così drammatica e violenta? È altrettanto probabile.
Quello che sappiamo è che tutto quanto si poteva fare per il corpo di Trasina siamo riusciti a farlo e continueremo a farlo. Ci resta però un altro compito. Seguire la sua crescita e la sua vita. Gioire per i progressi che riusciremo a farle compiere, soffrire per le sue limitazioni e rifiuti, continuando a cercare di farle percepire, intorno a sé, un amore affettuoso e discreto, che la segue sempre, con la speranza che, questo affetto e la vita all’interno del Villaggio, riescano a riportarla ad una situazione di normalità e serenità, che speravamo avesse acquisito.
Un abbraccio a tutti.
Franco